Città immaginaria di Italo Calvino
Città immaginaria di Italo Calvino
Le ragnatele di Ersilia

I luoghi della dimenticanza

Rubrica di cultura e società

All'uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d'una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d'arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c'è un muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.

Le città e la memoria da "Le città invisibili" - Italo Calvino



La quarantena è finita e siamo tornati a ripopolare le strade e le piazze.
La paura ci aveva resi più piccoli perché schiacciati sotto un cielo che ci aveva tenuti fermi per un po' di tempo. Ed ora il mondo, come per incanto, ci appare diverso.
Gli spazi che abbiamo abitato sino ad ora sembrano non essere più a misura d'uomo. In realtà non lo erano già da tempo ma abbiamo continuato comunque ad abitarli perché per riorganizzare una cosa la devi prima fermare e svuotare. E poi pensare.
Sappiamo da tempo che le nostre città non sono accoglienti per gli anziani e per i bambini, che manca l'ossigeno per respirare. Ora sappiamo che respirare è importante. Indossare la mascherina ci ha fatto capire che non tutto quello che sta nell'aria merita di entrare nel nostro corpo.

Per capire come sia stato vivere chiusi in casa durante la quarantena chiediamolo a chi l'ha trascorsa in un mini appartamento di cinquanta metri quadrati al massimo, magari senza balcone, con una sola finestra che si affaccia, al settimo piano, in un cortile dove non ci sono né alberi né fiori da guardare. Chiediamolo ai bambini, a quelli che sono stati per la maggior parte del tempo davanti ad uno schermo, mentre fuori c'era uno splendido sole di primavera.

Calvino nelle sue "Città invisibili" diceva che in realtà da ogni luogo può scaturire bellezza, anche dal più degradato, ma io qui di bellezza non ne vedo. Per chi ci abita, forse, la bellezza resta un sogno difficile da realizzare e in queste lunghe giornate di quarantena c'è chi ha dovuto condividere degli spazi imbarazzanti con la propria famiglia. Perché in una casa piccola senza comfort è facile invadere lo spazio dell'altro, anche se l'altro è tuo figlio.
Quando nella maggior parte delle nostre città quei palazzoni sono stati costruiti, c'è chi non ha minimamente pensato che quelle dovessero essere delle abitazioni cioè "luoghi in cui poter vivere" e non semplici camere di albergo, dei dormitori, come se la vita reale dei residenti dovesse poi svolgersi altrove. Anche le celle dei monasteri venivano chiamate dormitori ma erano realmente pensate soltanto per dormire e pregare.
Questi luoghi di antropologico non hanno nulla, tu entri con la tua identità e ne esci che l'hai venduta (o svenduta). Sei soltanto un semplice utente in un luogo di passaggio perché ti auguri di poter, un giorno, tornare ad abitare il tuo paese.

In realtà un "altrove" esiste, lo abbiamo inventato un po' di tempo fa e forse lo abbiamo fatto anche perché sapevamo che sarebbe stato indispensabile fuggire la realtà. La realtà non è sempre piacevole, per alcuni è addirittura un incubo. Ed ora siamo tutti dentro per costruirci qualcosa di duraturo, scrivere il diario della nostra esistenza, una storia corale che tutti potessero leggere perché sempre più trasparente.

La Rete ci ospita quotidianamente e in queste lunghe giornate di blocco totale ci ha dato l'impressione che nulla si fosse fermato. Anche chi, in questi anni, aveva demonizzato l'uso delle moderne tecnologie si è arreso ed ha costruito il proprio profilo su uno dei tanti social network, è entrato a far parte di questo contesto digitale.
Gli ultimi, irriducibili, ostinati, reazionari che hanno rifiutato per tanto tempo di entrare in questo spazio pubblico ora si sono adeguati alle regole della nostra immensa società digitale.

Mai tecnologia fu più adatta a sopperire alla mancanza di vita reale. Adatta ma anche intelligente, ti stimola a tal punto che dopo che la usi per un po' di tempo senti il bisogno di tornarci e di compiere gli stessi gesti, gli stessi rituali. E se non lo fai per un giorno sopraggiunge la fame, hai bisogno di inviare un messaggio, una mail, postare una foto, condividerla, gesti di una umanità accresciuta ormai non più ancorata al passato ma a quello che il futuro e la tecnologia potrà offrirle.
Internet è una tecnologia intellettuale che, agendo sulla parola e sul linguaggio, ha provocato dei cambiamenti molto importanti, non si è limitata ad aiutarci nelle nostre faccende quotidiane ma ha modificato il nostro approccio alla realtà perché è proprio attraverso la parola ed il linguaggio che noi vediamo il mondo e ci proiettiamo su di esso.

Una cosa è certa: chi è entrato a far parte soltanto adesso di questa comunità digitale ha di sicuro trovato una Rete più matura rispetto a quella di qualche anno fa, degli utenti più consapevoli dello spazio che occupano, ha trovato persone che hanno finalmente capito che di vite non ce ne sono due ma una soltanto. E in queste giornate c'è chi ha trasferito sui social forse la parte più bella di sé, le proprie emozioni, le proprie paure, chi ha trovato un amico con cui parlare, chi si è aggiornato quotidianamente sull'andamento del virus, c'è chi ha lavorato in modalità smart, chi ha seguito da remoto le lezioni, chi ha esibito la propria performance e chi ha goduto della bellezza che l'arte ci ha donato.

Sta di fatto che il mondo che vediamo oggi non è quello di tre mesi fa. Si perdono delle abitudini e se ne acquisiscono delle altre. E se alcune cose non le facciamo per un tempo prolungato poi non sentiremo più la necessità di farle.
Un esempio di come il mondo stia cambiando lo vediamo quando muore una persona. L'aver chiuso le chiese per mesi e l'aver vietato i funerali ha generato di sicuro un cambiamento importante. Ci siamo adattati ad una nuova dimensione sociale per necessità. E durante questo periodo di assenza fisica abbiamo sviluppato una nuova maniera di relazionarci, una nuova socialità a distanza anche per svolgere delle cose che prima non ci saremmo mai sognati di fare in questo modo. Lo abbiamo fatto con la parola, abbiamo celebrato i funerali attraverso una liturgia che abbiamo scelto noi, con i nostri messaggi di conforto. I funerali d'oggi si celebrano così e questo modo di essere presenti e mostrare la nostra vicinanza a chi non c'è più ci sta piacendo. È così che le cose si evolvono. È così che cambia il mondo.
La malleabilità del nostro cervello ci porta, però, ad acquisire nuove potenzialità sacrificandone altre molto importanti.

Una delle facoltà mentali che l'uomo rischia di modificare o addirittura di perdere con l'uso frequente di moderne tecnologie è la capacità di ricordare perché ricordare diventa inutile nel momento in cui disponiamo di potenti accumulatori di memoria.
Aver trasferito, per esempio, in questo ultimo periodo, i nostri pensieri in Rete ha ingigantito di molto la memoria della Rete. Certo, lo abbiamo fatto perché ne sentivamo il bisogno, era una necessità impellente, ma non ci rendiamo conto che tutto quello che abbiamo messo qui dentro facilmente lo dimenticheremo. Se affido i miei scritti e i miei ricordi a qualcuno che so che potrà custodirli inevitabilmente sceglierò di liberare la mia mente per far spazio ad altro. A questo servono le tecnologie, anche la scrittura è una tecnologia, se vogliamo, della dimenticanza, che ti permette di scrivere, annotare e poi passare ad altro. Così facendo, cosa resterà di noi, di questa nostra quarantena, dopo che avremo trasferito tutto quanto in Rete?
Quanti di noi avranno interiorizzato il problema, lo avranno elaborato nella propria mente e quanti invece si saranno limitati a condividere informazioni non suffragate e poco utili alla comprensione di quello che stessimo vivendo?

A differenza del computer, il nostro cervello sa quando depositare un ricordo e sa quali sono gli elementi che non sono necessari alla nostra sopravvivenza.
Proust sosteneva che si potesse sopravvivere a tutto nella vita, anche ad una quarantena. L'importante sarebbe stato serbarne il ricordo. E in realtà lui aveva scelto volontariamente di vivere il suo isolamento, la sua quarantena durata anni.
Si era fatto tappezzare le pareti del suo studio con del sughero per insonorizzarle e permettergli di godere del silenzio e ascoltare meglio i suoi ricordi.
Dalla sua quarantena nascerà uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale, un'opera monumentale, immensa quanto una cattedrale.

Non aver interiorizzato il problema significherà che quando avrò bisogno di alcune informazioni dovrò interrogare un motore di ricerca. Un ricordo che non emerge in maniera involontaria ma che scaturisce da una simile interrogazione è un ricordo che non terrà conto del fattore tempo, del tempo che procede in avanti, non si nutre di emozioni e può mantenere quel dato all'infinito. E perderemo la capacità del tutto innata di inquadrare i fatti nella loro specifica sequenza temporale diventando incapaci di vivere il presente e di considerare il passato come concluso.
Non tener conto del fattore tempo significa restare intrappolati in un eterno presente dove "l'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre capovolta e tu con essa, granello della polvere!"

Avremmo bisogno ora di uscire e parlare delle nostre paure con i nostri amici, con chiunque incontriamo per strada. Abbiamo bisogno di confrontarci, non importa che indossiamo la mascherina. La mascherina è il segno di una ferita che non è ancora rimarginata. E dalle ferite possiamo ripartire per trovare la voglia di ricominciare. Non importa che le cose siano diverse, l'importante ora è ricominciare.

Una mia amica, oggi, mi ha detto che suo figlio ed i suoi compagni di classe hanno deciso, nonostante il nuovo decreto ministeriale entrato in vigore il 18 maggio, di non uscire. Questa è una cosa che mi rattrista tanto e mi fa pensare a quanta sofferenza i nostri ragazzi, apparentemente sereni, abbiano portato dentro in questi mesi.

Forse una vita vissuta a metà non ci piace e se a un ragazzo dici di stare attento e di mantenere le distanze con i compagni molto probabilmente sceglierà di non uscire. Preferirà, forse, continuare a inviare messaggi alla sua ragazza in chat perché lì saprà che non avrà limiti ma spazi infiniti.
I ragazzi hanno tutta una vita dentro che non può e non deve restare dentro.
Se continuano così ad aver paura e se noi adulti non diamo loro delle soluzioni concrete rischiano di portarsi dietro un grande senso di colpa ogni volta che vorranno avere un contatto fisico con gli altri.
Cosa accadrebbe se cominciassimo ad associare al desiderio di un corpo la paura di un contagio e quindi della morte? Sarebbe la peggiore distopia mai immaginata e mai messa in scena, peggiore anche di quella orwelliana, perché se in 1984 le relazioni amorose nuocciono al partito, le nostre intaccherebbero la vita stessa.

I nostri figli sanno che la guerra non è ancora finita.
La guerra non è finita e come se non bastasse i nostri ragazzi non hanno fiducia negli adulti e in chi ci governa. Non amano le leggerezze, non amano le bugie, sanno leggere meglio di noi le verità. La verità sta nella conoscenza, non in quelle cose che i media ci propinano, non in quei discorsi politici incapaci di comunicare il senso delle cose perché troppo legati alla contingenza e ad un servilismo sempre più dilagante.
I nostri ragazzi hanno perso una primavera e una stagione dell'amore. E questa primavera mancata poi la cercheranno, di sicuro la cercheranno.
E cercheranno quella notte, prima degli esami, la vorranno insonne, lunga, da eroi, faticosa, con le gambe che ti tremano ma con la gioia nel cuore, da raccontare ai loro figli, la notte in cui cominci ad immaginare il tuo futuro, a sentirti leggero come uno scoiattolo e a percorrere tutte le strade del mondo.
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