Federico Buffa racconta Jordan: un mito senza retorica
A Bisceglie lo spettacolo Number 23 – Vita e splendori di Michael Jordan trasforma la leggenda in racconto vivo
venerdì 25 luglio 2025
8.25
Come si fa a raccontare Michael Jordan, la star più grande della storia dell'NBA, senza scivolare nella retorica? Come si costruisce uno spettacolo teatrale su un'icona planetaria che tutti pensano di conoscere già? Federico Buffa ha la risposta. E la dà con Number 23 – Vita e splendori di Michael Jordan, portato in scena ieri sera all'Opera Don Uva davanti a un pubblico attento e partecipe, per un'ora e venti di racconto serrato, preciso, sorprendentemente intimo.
Buffa non è un attore, ma uno storyteller, nella migliore accezione del termine. E in questo spettacolo mette a frutto ciò che nessun altro può vantare: anni passati a bordo campo a raccontare quella carriera in diretta, dal primo trionfo ai Bulls all'ultimo fadeaway contro Utah. Quella memoria vissuta è il filtro che impedisce alla narrazione di scivolare nel santino. Non c'è nulla di agiografico. C'è invece una costruzione narrativa che lavora per sottrazione, che sceglie angolazioni inaspettate, che restituisce l'uomo prima ancora del mito.
Sul palco, Buffa è accompagnato al piano dal maestro Alessandro Nidi – complice e contrappunto emotivo – che dà ritmo, respiro, sospensione. La scenografia è essenziale. Il protagonista è il racconto, fatto di voce, ritmo, memoria e pause calibratissime. Ogni tanto Buffa esce dalla narrazione, si concede qualche riflessione personale, racconta la volta in cui si trovava davvero lì, a pochi metri da Jordan, in uno di quei momenti che lo sport scolpisce nella storia.
Lo spettacolo trova il suo fulcro nel ritratto ossessivo e quasi spietato del carattere di Jordan: il desiderio costante di annientare l'avversario, la determinazione maniacale, il senso del torto trasformato in carburante. Buffa immagina un taccuino mentale in cui Jordan annotava ogni offesa ricevuta – vera o presunta – per poi usarla come miccia. È una delle intuizioni più potenti dello spettacolo, e restituisce non solo il campione, ma anche la tensione emotiva e psicologica dietro a ogni gesto tecnico.
Il pubblico di Bisceglie ha seguito in silenzio, rapito, lasciandosi portare in quegli anni, in quelle arene, in quell'America che Buffa tratteggia con la consueta maestria da osservatore colto e trasversale. Non è solo Jordan, infatti, a emergere, ma un contesto culturale, mediatico e sportivo che ha contribuito a farlo diventare ciò che è.
Alla fine, l'applauso è convinto e sincero. Non perché si è assistito alla celebrazione di un eroe, ma perché si è stati accompagnati – con intelligenza e senza retorica – dentro il cuore di una leggenda, e forse un po' anche dentro la memoria collettiva di chi ama davvero lo sport.
Federico Buffa ha vinto la sua sfida. E l'ha fatto come solo i grandi narratori sanno fare: restando credibile, anche davanti all'incredibile.
Buffa non è un attore, ma uno storyteller, nella migliore accezione del termine. E in questo spettacolo mette a frutto ciò che nessun altro può vantare: anni passati a bordo campo a raccontare quella carriera in diretta, dal primo trionfo ai Bulls all'ultimo fadeaway contro Utah. Quella memoria vissuta è il filtro che impedisce alla narrazione di scivolare nel santino. Non c'è nulla di agiografico. C'è invece una costruzione narrativa che lavora per sottrazione, che sceglie angolazioni inaspettate, che restituisce l'uomo prima ancora del mito.
Sul palco, Buffa è accompagnato al piano dal maestro Alessandro Nidi – complice e contrappunto emotivo – che dà ritmo, respiro, sospensione. La scenografia è essenziale. Il protagonista è il racconto, fatto di voce, ritmo, memoria e pause calibratissime. Ogni tanto Buffa esce dalla narrazione, si concede qualche riflessione personale, racconta la volta in cui si trovava davvero lì, a pochi metri da Jordan, in uno di quei momenti che lo sport scolpisce nella storia.
Lo spettacolo trova il suo fulcro nel ritratto ossessivo e quasi spietato del carattere di Jordan: il desiderio costante di annientare l'avversario, la determinazione maniacale, il senso del torto trasformato in carburante. Buffa immagina un taccuino mentale in cui Jordan annotava ogni offesa ricevuta – vera o presunta – per poi usarla come miccia. È una delle intuizioni più potenti dello spettacolo, e restituisce non solo il campione, ma anche la tensione emotiva e psicologica dietro a ogni gesto tecnico.
Il pubblico di Bisceglie ha seguito in silenzio, rapito, lasciandosi portare in quegli anni, in quelle arene, in quell'America che Buffa tratteggia con la consueta maestria da osservatore colto e trasversale. Non è solo Jordan, infatti, a emergere, ma un contesto culturale, mediatico e sportivo che ha contribuito a farlo diventare ciò che è.
Alla fine, l'applauso è convinto e sincero. Non perché si è assistito alla celebrazione di un eroe, ma perché si è stati accompagnati – con intelligenza e senza retorica – dentro il cuore di una leggenda, e forse un po' anche dentro la memoria collettiva di chi ama davvero lo sport.
Federico Buffa ha vinto la sua sfida. E l'ha fatto come solo i grandi narratori sanno fare: restando credibile, anche davanti all'incredibile.