Giustizia
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Il caffè del filosofo

Il Rito. Celebrare i peccati per esorcizzarli

È la società a richiedere che i processi vengano celebrati, altrimenti si affievolirebbe la fiducia dei consociati nella società stessa, sino all'autodistruzione

Sin dall'antichità gli esseri umani hanno inventato modi sempre più ingegnosi per ricondurre sotto il loro controllo ciò su cui non avevano potere: addestrando ed addomesticando animali selvaggi, coltivando e fertilizzando la terra in modo da ottenere il raccolto sperato, creando dighe e canali per imbrigliare l'energia dei corsi d'acqua, creando tecniche di analisi psicologica e farmaci capaci di aiutare una mente senza equilibrio a ritrovare la propria armonia.

Il cammino dell'uomo è stato sempre caratterizzato, dunque, da una "mania" di controllo stabile e duratura. A prescindere dall'origine di questa inclinazione, è innegabile che essa rappresenti per l'uomo uno dei principali motori della ricerca scientifica.

Esistono tuttavia alcuni aspetti dell'esistenza impossibili da controllare, che hanno però al contempo un impatto notevole sulla vita dell'uomo. Per far fronte a questi eventi gli uomini hanno, sin dall'antichità, escogitato un ingegnoso sistema di catarsi che rovescia l'ambito di azione: si tratta di non operare direttamente sulla realtà per renderla più mansueta, bensì di agire sull'animo umano e, tramite gesti e parole che non hanno alcun potere effettivo su quella data situazione della vita, ridurre la lacerazione creata dalla scollatura tra aspettative e realtà. Si pensi ad esempio alle danze della pioggia o all'istituto religioso della confessione. In entrambi i casi le parole o le azioni svolte non determinano l'evento sperato (in uno l'arrivo della pioggia, nell'altro il voler cancellare storicamente il peccato confessato); cionondimeno, dopo aver compiuto questi riti, chi vi partecipa si sente sollevato e rigenerato, pur non avendo trasformato la realtà che lo circonda. Questa sottile opera di auto-persuasione si dispiega ininterrottamente sino ai giorni nostri.

Non si pensi però che l'ambito della sua applicazione sia limitato a quella che viene comunemente intesa come "sfera spirituale" dell'uomo: ogni volta che viene commesso un atto ingiusto, ogni volta che il tessuto sociale viene leso dalla commissione di un reato, si assiste alla reazione fisiologica, specialmente nei paesi civilizzati, che richiede la celebrazione di un rito, ossia celebrare un processo a carico del presunto reo.

La scelta delle parole a cui il legislatore provvede, parole che il più delle volte riteniamo circoscritte all'ambito spirituale, non è casuale né deve sorprendere. In primo luogo, infatti, un processo, sia esso civile o penale, si presenta come rivestito di una laica sacralità, in quanto istituto preposto a ricucire uno strappo creatosi all'interno della società. Naturalmente questa lacerazione risulta tanto più profonda quanto più grave si considera il crimine commesso, a tal punto da rischiare di tradursi in un lento e progressivo deterioramento della società in cui viviamo: il processo si fa carico del risentimento delle vittime e dello sdegno del consesso civile che, parafrasando Durkheim, se non sottoposti a controllo e lasciati liberi di agire contro il reo, produrrebbero una giustizia fondata sulla legge del taglione, una giustizia ancor più divisiva del crimine che si ripromette di punire.
Questa sacralità è ulteriormente accentuata dalla previsione di condotte proibite e di regole di celebrazione più o meno rigide, differenziate in base all'entità e gravità dell'illecito o del crimine commesso; la celebrazione avviene inoltre di fronte ad un organismo gerarchicamente strutturato, al quale si può accedere solo dopo un lungo percorso di formazione e il cui fine è quello di rendere i giuristi neofiti conoscitori e interpreti dei codici in cui tali regole sono contenute.

In secondo luogo questo elaborato schema di "catarsi e purificazione" condivide con gli altri riti anche l'ambito in cui i suoi effetti si esplicano. Il processo non ha niente a che vedere col crimine in sé, esso è esclusivamente il motivo per cui il rito viene celebrato, la procedura in sé non è in grado né di cancellare quanto avvenuto, né di riportare le cose allo stadio precedente. Nemmeno il risarcimento o l'esecuzione della pena hanno direttamente a che vedere con il fatto criminoso; esso è il motivo per cui si commina una pena ma non può modificare quanto già avvenuto. Il processo, quindi, agisce sull'anima della società, sedando la rabbia, la pena agisce invece su quella del condannato, correggendola qualora non sia concorde con quella della società.

Crimine, processo e pena sono grandezze tra loro incommensurabili che presentano punti di contatto solo in virtù del fatto che la prima è l'anteriore "logico" delle altre due. Ma relazione tra i tre elementi si esaurisce qui: il crimine condiziona rito e pena, ma rito e pena non hanno alcun potere materiale su di esso; il processo non elimina il fatto commesso né la pena, almeno allo stato attuale delle cose, fornisce certezze riguardo la possibile recidiva del condannato.

La ritualità è dunque, anche in ambito giuridico, oltre che un metodo più o meno affidabile per accertare le mancanze e le colpe di un determinato individuo, anche un sottile gioco di (auto-) persuasione attraverso cui la società convince se stessa di essere tornata nuovamente al suo equilibrio naturale, alla sua coesione, e, proprio in virtù di questa idea, essa vi fa concretamente ritorno.
Quando questo percorso risulta indebolito o interrotto, si è in presenza di una giustizia che non è più sentita come tale dalla società; è proprio in questo momento di crisi, però, che si notano le maggiori differenze tra questo rito laico (inteso come legislazione ed iter processuale insieme) e gli altri riti di stampo più spirituale: da un iniziale momento di crisi il processo trae una nuova spinta, trasforma ciò che lo minaccia in nuova linfa vitale; il rito stesso prende atto della sua inefficienza e, pur rimanendo ancorato a quei principi fondamentali espressi nella Costituzione e nei trattati internazionali fondamentali, si rinnova sulla base delle nuove esigenze espresse dai suoi "fedeli".

Questo peculiare modo di operare rende la nostra produzione legislativa sotto ogni aspetto un living instrument, termine con cui la Corte europea dei diritti umani preferisce indicare la convenzione omonima e che illustra bene l'idea di come le norme operino: uno strumento nella mani dell'umanità, uno strumento vivo, che non smette di crescere e rinnovarsi, poiché riflette la tendenza naturale al miglioramento ed al progresso di chi lo impugna. Questa laica celebrazione dei peccati si configura così come un cerimoniale in cui si uniscono le due figure fondamentali presenti in ogni rito: i "fedeli" e colui in nome del e per il quale il rito viene celebrato.

Devoti e divinità si sovrappongono come in un gioco di trasparenze; è la società a richiedere che i processi vengano celebrati, altrimenti si affievolirebbe la fiducia dei consociati nella società stessa, sino all'autodistruzione. Proprio per questo motivo i processi si tengono in nome del popolo italiano, massima ed immateriale autorità che deve guidare la legge ed al contempo farsi guidare da essa.
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