Giorgio Gaber
Giorgio Gaber
Il caffè del filosofo

La canzone dell'appartenenza

Da Marx a Gaber, passando per Becket e Brecht, una riflessione sull'attualità del Coronavirus che palesa la faccia del capitalismo sciacallo

«Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri (…). Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa Perché forse era solo una forza, un lavoro, un sogno. Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di sé stesso: era come due persone in una».

I versi finali della celebre "Qualcuno era comunista" (1992) di Giorgio Gaber. Nell'ultimissima parte della canzone il poeta della libertà dipinge però una contemporaneità in cui «il sogno si è rattrappito», le ali dello «slancio» sono state spezzate, e quell'essere due persone in una è diventato un essere «due miserie in un corpo solo».

La mia intenzione qui non è fare un elogio cieco del comunismo, ma di sentire e interpretare quella sottile e profonda disillusione che ci accompagna silenziosamente. È un sentimento di perenne inadeguatezza, di sconfitta e di fallimento avvertita da coloro che non si sentono "normali", nel senso di "normati" dalla società classificatoria ed escludente in cui viviamo (Foucault docet).

Cosa è normale: essere produttivi (economicamente parlando, nell'Occidente del 2020). Cosa non è normale: perdersi in chiacchiere da bar (la filosofia, la letteratura, ecc...). Se sei un uomo bianco, etero e di successo, la tua cultura sarà quella egemone. Se non lo sei la tua cultura sarà quella subalterna. La morale del primo è borghese, quella del secondo è dissidente.

Qualcuno era comunista perché sentiva la necessità di una morale diversa: una morale che non fosse quella borghese, capitalista, incentrata sul mito del "self-made man", individualista e giudicante.

Uno slancio, un desiderio di cambiare le cose: «L'economia di mercato non funziona più perché è basata solo sull'egoismo. Ma un altro sistema è possibile, anche in Occidente». Così Muhammad Yunus in un'intervista rilasciata a Emanuele Coen sull'Espresso del 13 maggio 2018. Yunus è un economista di 80 anni che viene dal Bangladesh. Viene chiamato il "banchiere dei poveri" e ha ricevuto il Nobel per la pace nel 2006 grazie alla creazione della "Grameen Bank" (1976), una banca che non guarda alle garanzie ma si fonda sulla solidarietà, e oggi è presente in tutto il mondo. «Il capitalismo finora ha inquadrato l'uomo in una maniera sbagliata, come un individuo indifferente al prossimo». (M. Yunus).

A quanti credono che il comunismo sia morto, che Marx sia sorpassato, che il sistema capitalistico sia la gloriosa conclusione di quella linea retta verso il progresso che è la storia, ricordo che essere nati nella "parte giusta" del mondo non è (ancora) un merito. L'emergenza coronavirus ha fatto emergere la faccia più spietata del sistema capitalistico sciacallo: la domanda di mascherine, gel disinfettanti e alcol si è alzata vertiginosamente, provocando il rapido esaurimento scorte di questi prodotti. Adesso, a quasi due mesi dallo scoppio dell'epidemia, i suddetti prodotti sono venduti come pezzi d'antiquariato o opere d'arte, a prezzi inumani e vergognosi. Fare soldi sulla paura (e sulla pelle) dei più poveri e bisognosi. Questo è il sistema economico che governa il globo. Touché.

"Essi (i proletari) non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno, ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno". (1)

Marx si rivela più attuale che mai. Parola d'ordine: guadagno. Il sistema economico del capitale spersonalizzante annulla totalmente il modo di stare al mondo più propriamente umano: la "pluralità", come avrebbe detto Hannah Arendt, ovvero lo stare-con, il vivere tra gli altri esseri umani. Questa dimensione a-relazionale del sistema capitalistico emerge in tutta la sua tragicità nell'opera magna del drammaturgo e regista Samuel Beckett: "En attendant Godot" (Aspettando Godot). Questa messa in scena dell'assurdo del 1953 è uno schiaffo in faccia allo spettatore/lettore.

Aspettando Godot non ha trama: ci sono due uomini sulla scena, Vladimiro ed Estragone, che si intrattengono in discorsi nonsense mentre aspettano l'arrivo dell'ambiguo signor "Godot" (secondo le interpretazioni: Dio, la Felicità, ecc…).
A metà del primo atto irrompono sulla scena altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Pozzo si dichiara il proprietario della terra su cui stanno i due uomini che attendono, e porta al guinzaglio Lucky, il suo servo, che subisce i comandi del suo possessore, un uomo minuto che "dorme in piedi" (questa l'indicazione di regia di Beckett (2). Una delle interpretazioni più famose guarda a Pozzo e Lucky rispettivamente come il capitalista che sfrutta e il proletario che viene sfruttato. Una scena iconica vede Pozzo divorare in modo vorace e villano del pollo e lanciare gli scarti a Lucky. Per degli ossi di pollo scarnati e insipidi Lucky scatta ad ogni ordine del padrone. "Da notarsi poi che potrei benissimo trovarmi al suo posto e lui al mio. Se il caso non avesse deciso altrimenti. A ognuno il suo". (3)

Probabilmente ciò che Vladimiro ed Estragone stanno aspettando è proprio la liberazione. Due piccoli borghesi schiacciati dal loro stesso schema interpretativo del mondo. Godot però non arriva mai, nonostante i ripetuti "oggi non verrà, ma sicuramente domani" del suo messaggero. I due protagonisti allora, alla fine del primo atto (e anche del secondo, che sono identici) dichiarano, ormai rassegnati, la volontà di andare via, di smettere di aspettare. E puntualmente, dopo l'"Allora Andiamo?" di uno e l'"Andiamo" dell'altro, i due comunque non si muovono.

Ancora più esplicita è la critica della morale borghese consegnata alla storia del teatro da un altro grande drammaturgo del Novecento, Bertolt Brecht, con la sua "Die Dreigroschenoper" (L'opera da tre soldi, 1928). In tre atti Brecht dipinge un tipico dramma della delinquenza londinese del Novecento, allegoria dello "spietato mondo degli affari". (4)

Il personaggio principale, Mackie Messer, è uno sfruttatore che punta al maggior guadagno con il minimo sforzo. Anche il matrimonio con Polly, la figlia del "boss di quartiere", è per lui solo una questione di affari. Il borghesismo morale si esprime anche così: il matrimonio è un contratto, in cui l'uomo dispone del corpo della donna per "produrre" figli che dovranno proseguire l'attività del padre e mantenere alto l'onore della famiglia. È ciò che dice Engels in "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" (1884): "donna" è un'altra espressione di "proprietà" per il borghese (che infatti non sceglie il suo sposo, ma viene indirizzata dal suo primo "proprietario", suo padre, verso l'unione più economicamente e socialmente vantaggiosa).Credere di poter essere "vivi e felici solo se anche gli altri lo sono": è un concetto complesso per chi crede di essere già libero (una libertà formale, la loro). La libertà, ci insegna il Signor G, è partecipazione: libero accesso di tutti alla possibilità della felicità.

Vorrei concludere con una spiegazione del Marx "filosofo" (5) di Andreas Arndt (un grande interprete contemporaneo di Hegel):

"(…) Da qui la dimensione etica e politica in Marx, la volontà cioè di liberare non solo una classe, quanto ogni singolo individuo da rapporti economici di dipendenza o alienanti e dal feticismo compulsivo del consumismo". (6)



(1) Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels, a cura di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti - Roma - 1968.
(2) Aspettando Godot, Samuel Beckett, a cura di Carlo Fruttero, Einaudi editore - Torino - 2017
(3) Ivi, pagina 42 (parla Pozzo)
(4) L'Opera da tre soldi, Bertolt Brecht, a cura di Emilio Castellani, Einaudi editore - Torino - 1992.
(5) Su questa divisione tra il "Marx economista" e il "Marx filosofo", spesso riportata dalle antologie liceali, ci sarebbe molto da discutere (ma non è questo il luogo: non me ne vogliano i marxisti).
(6) Colloquio con Andreas Arndt di Stefano Vastano, L'espresso n° 18 del 28 aprile 2018.
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