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Morte di un gettonista
Capitolo ventiduesimo
Giallo a puntate firmato dal dott. Antonio Marzano
giovedì 1 maggio 2025
7.18
Non si uccide per un incontro amoroso rifiutato, tanto meno per timore che venga alla luce una relazione extraconiugale.
Tra l'altro, il chirurgo e la moglie sono entrambi «trasgressori seriali compiacenti», per cui...
Mi si chiudono gli occhi...
«Lino! Lino!» – urla mia madre – «Dove vai?»
Attraverso una stanza vuota, mentre raggiungo il Corsaro.
Più mi avvicino, e più lui si allontana, come spinto da una forza invisibile.
Il fiato si fa corto.
«Lino, Lino, fermati!»
Mentre le mie sorelle mi osservano divertite, mio padre aveva capito molto bene come sarebbe andata a finire la storia: male, molto male.
«Lino, non andare» – dice mia madre con le lacrime agli occhi – «Ti farai male, molto male... Figlio mio, non andare.»
La luce nel salone è tenue.
Seduti sul divano di velluto verde, ti accarezzo i capelli mentre hai il capo poggiato sulle mie gambe e, con un filo di voce, sussurro:
«Tu sei mia... tu sei mia.»
Una raffica di vento mi spinge al largo.
Le braccia sono deboli, le gambe si muovono con fatica, non mi sostengono...
Inizio a ingoiare acqua; le onde si fanno più impetuose.
Ho paura, lancio un urlo:
«Aiuto!»
Così forte che mi sveglio.
La grande sala ristorante della mensa è affollata di studenti.
Cosa mi spinge, non so.
Mi faccio male da solo.
Le urla arrivano da tutte le parti:
«Lino! Lino! Fermati, fermati!»
Scende un dolore sordo e profondo: ti vedo seduta a un tavolo...
Ho capito!
Mi avvicino senza dire niente, senza sentire niente.
Sono in un baratro buio e vuoto.
Trilla il telefono in camera: sono nel dormiveglia.
«Dottore, sono Rebecca, c'è una consulenza dal pronto soccorso.»
Ho bisogno di qualche minuto per ritornare alla realtà, per capire dove sono, con chi sono, perché sono qui e cosa devo fare ora.
Mi sbatto con forza l'acqua fredda sul viso.
Vedo l'orologio da polso: le 16:40.
Ho dormito tanto.
Tutto a un tratto sento di dover andar via.
«Venga, dottore.
Michelino ha febbre da tre giorni, tosse e difficoltà a deglutire.»
«Grazie Rebecca, andiamo. Niente di serio.»
Michelino è un bambino di dieci anni.
Mi guarda con sospetto.
Di certo non avrebbe voluto stare in ospedale in questo pomeriggio di luglio.
«Dottore, buongiorno.»
«Buongiorno. Lei è la mamma?»
«Sì, dottore, sono la mamma.»
«Non è la prima volta che Michelino ha la febbre alta e il mal di gola. Ormai è grande e so come procedere.
Il fatto è che questa volta la febbre è sempre alta da tre giorni, nonostante, anche su suggerimento del suo pediatra, abbiamo iniziato l'antibiotico.»
«Michelino, dimmi cosa ti senti.»
«Mi sento la febbre, mi fa male la testa e la gola, e mi sento debole.»
Rebecca si avvicina e amorevolmente invita il bambino a salire sul lettino.
I nostri occhi sono puntati su di lui.
Nonostante lo sgabello, Michelino fa fatica a salire.
Suda copiosamente ed ansima, nonostante non sia in sovrappeso.
Si lascia andare esausto e si sdraia.
«Michele, da quanto tempo stai così?»
«Dall'ultimo giorno prima di ripartire...»
«Cioè?»
«Dottore» – interviene la madre – «siamo stati in vacanza all'estero e prima di tornare a casa ha iniziato a stare male.»
Rebecca si avvicina e prende la temperatura al bambino con il termometro auricolare: 41!
Michele inizia a tremare, mentre Rebecca prepara una fiala di paracetamolo da mille e bagna una spugna con alcool.
Immediata è l'iniezione, mentre fa scivolare la spugna imbevuta su tutto il corpo.
Michele continua a tremare.
Prendo un panno, apro il frigorifero dove sapevo esserci una bottiglia d'acqua, la verso sul panno e lo metto sulla fronte del bambino.
Controllo la temperatura sul display dell'aria condizionata.
La porto a 18 gradi e giro la ventola al massimo, spingendo le alette verso l'alto.
Trascorrono cinque minuti.
«Dottore, che facciamo?» – dice Rebecca.
La stoppo con lo sguardo:
«Controlla la temperatura.»
«40.»
«Bene. Continua con le spugnature.»
Io riprendo la bottiglia, verso dell'acqua in un bicchiere di plastica.
«Bevi, Michele, bevi a sorsi. Signora, aiuti suo figlio a bere.»
Rebecca gli solleva piano il capo.
«Signora, dove siete stati in vacanza?»
«In Kenya.»
«In Kenya?»
«Sì, dottore, in Kenya.»
Esco dalla medicheria per raggiungere un telefono.
Cerco sulla rubrica il numero: laboratorio analisi.
Al terzo squillo risponde una voce femminile:
«Pronto, laboratorio.»
«Sono il dottor Traini, dalla Pediatria.
Potete farmi lo striscio al vetrino per la ricerca del Plasmodium? Ho un bambino con febbre alta tornato dal Kenya… non vorrei avesse contratto la malaria.»
«Collega, ma se hai questo sospetto devi trasferirlo a Bari, alla clinica delle malattie infettive.»
«Sì, sì, vorrei mandarlo con una diagnosi di certezza.»
«Va bene… ci provo. Mandami il bambino così faccio lo striscio.
Per correttezza ti dico che per me è la prima volta che cerco nel sangue il Plasmodium. Se c'è, spero di riconoscerlo.»
«Dai, collega… apprezzo la tua correttezza, ma non dire così.
Anche per me è la prima volta che sospetto una malaria, e sono arrivato a 70 anni.
Te lo mando subito.»
Torno in infermeria.
«Rebecca, per favore, accompagna Michelino al Laboratorio Analisi.»
E scrivo la richiesta.
Rebecca la legge, la mamma la legge.
«Dottore...» – mi fa la madre – «ma lei pensa che mio figlio abbia la malaria?»
«Signora, mi conferma che lì dove siete stati il clima era caldo e umido, che erano presenti acquitrini e anche zanzare?»
«Sì, purtroppo sì.
Ma noi stiamo bene, sia io che mio marito.»
«Ora pensiamo a Michelino, poi vedremo voi.
Io spero di sbagliarmi, ma se così non fosse, o anche se l'analista dovesse avere un dubbio, dovrò trasferire il bambino a Bari, alla clinica delle malattie infettive.»
Ho l'impressione che la giovane signora solo ora inizi a percepire la gravità del sospetto diagnostico.
Ha la fronte sudata, sotto le ascelle l'alone del sudore sulla camicia si allarga rapidamente, i capelli sono spettinati e lo sguardo è molto teso e preoccupato.
Poi si ricompone:
«Michelino, andiamo.»
Sostiene il bambino con le braccia.
«Andiamo, seguiamo la signora Rebecca.»
E prima di uscire, Rebecca mi lancia uno sguardo ammirato, ed io rispondo con un'espressione:
«Niente di serio.»
Tra l'altro, il chirurgo e la moglie sono entrambi «trasgressori seriali compiacenti», per cui...
Mi si chiudono gli occhi...
«Lino! Lino!» – urla mia madre – «Dove vai?»
Attraverso una stanza vuota, mentre raggiungo il Corsaro.
Più mi avvicino, e più lui si allontana, come spinto da una forza invisibile.
Il fiato si fa corto.
«Lino, Lino, fermati!»
Mentre le mie sorelle mi osservano divertite, mio padre aveva capito molto bene come sarebbe andata a finire la storia: male, molto male.
«Lino, non andare» – dice mia madre con le lacrime agli occhi – «Ti farai male, molto male... Figlio mio, non andare.»
La luce nel salone è tenue.
Seduti sul divano di velluto verde, ti accarezzo i capelli mentre hai il capo poggiato sulle mie gambe e, con un filo di voce, sussurro:
«Tu sei mia... tu sei mia.»
Una raffica di vento mi spinge al largo.
Le braccia sono deboli, le gambe si muovono con fatica, non mi sostengono...
Inizio a ingoiare acqua; le onde si fanno più impetuose.
Ho paura, lancio un urlo:
«Aiuto!»
Così forte che mi sveglio.
La grande sala ristorante della mensa è affollata di studenti.
Cosa mi spinge, non so.
Mi faccio male da solo.
Le urla arrivano da tutte le parti:
«Lino! Lino! Fermati, fermati!»
Scende un dolore sordo e profondo: ti vedo seduta a un tavolo...
Ho capito!
Mi avvicino senza dire niente, senza sentire niente.
Sono in un baratro buio e vuoto.
Trilla il telefono in camera: sono nel dormiveglia.
«Dottore, sono Rebecca, c'è una consulenza dal pronto soccorso.»
Ho bisogno di qualche minuto per ritornare alla realtà, per capire dove sono, con chi sono, perché sono qui e cosa devo fare ora.
Mi sbatto con forza l'acqua fredda sul viso.
Vedo l'orologio da polso: le 16:40.
Ho dormito tanto.
Tutto a un tratto sento di dover andar via.
«Venga, dottore.
Michelino ha febbre da tre giorni, tosse e difficoltà a deglutire.»
«Grazie Rebecca, andiamo. Niente di serio.»
Michelino è un bambino di dieci anni.
Mi guarda con sospetto.
Di certo non avrebbe voluto stare in ospedale in questo pomeriggio di luglio.
«Dottore, buongiorno.»
«Buongiorno. Lei è la mamma?»
«Sì, dottore, sono la mamma.»
«Non è la prima volta che Michelino ha la febbre alta e il mal di gola. Ormai è grande e so come procedere.
Il fatto è che questa volta la febbre è sempre alta da tre giorni, nonostante, anche su suggerimento del suo pediatra, abbiamo iniziato l'antibiotico.»
«Michelino, dimmi cosa ti senti.»
«Mi sento la febbre, mi fa male la testa e la gola, e mi sento debole.»
Rebecca si avvicina e amorevolmente invita il bambino a salire sul lettino.
I nostri occhi sono puntati su di lui.
Nonostante lo sgabello, Michelino fa fatica a salire.
Suda copiosamente ed ansima, nonostante non sia in sovrappeso.
Si lascia andare esausto e si sdraia.
«Michele, da quanto tempo stai così?»
«Dall'ultimo giorno prima di ripartire...»
«Cioè?»
«Dottore» – interviene la madre – «siamo stati in vacanza all'estero e prima di tornare a casa ha iniziato a stare male.»
Rebecca si avvicina e prende la temperatura al bambino con il termometro auricolare: 41!
Michele inizia a tremare, mentre Rebecca prepara una fiala di paracetamolo da mille e bagna una spugna con alcool.
Immediata è l'iniezione, mentre fa scivolare la spugna imbevuta su tutto il corpo.
Michele continua a tremare.
Prendo un panno, apro il frigorifero dove sapevo esserci una bottiglia d'acqua, la verso sul panno e lo metto sulla fronte del bambino.
Controllo la temperatura sul display dell'aria condizionata.
La porto a 18 gradi e giro la ventola al massimo, spingendo le alette verso l'alto.
Trascorrono cinque minuti.
«Dottore, che facciamo?» – dice Rebecca.
La stoppo con lo sguardo:
«Controlla la temperatura.»
«40.»
«Bene. Continua con le spugnature.»
Io riprendo la bottiglia, verso dell'acqua in un bicchiere di plastica.
«Bevi, Michele, bevi a sorsi. Signora, aiuti suo figlio a bere.»
Rebecca gli solleva piano il capo.
«Signora, dove siete stati in vacanza?»
«In Kenya.»
«In Kenya?»
«Sì, dottore, in Kenya.»
Esco dalla medicheria per raggiungere un telefono.
Cerco sulla rubrica il numero: laboratorio analisi.
Al terzo squillo risponde una voce femminile:
«Pronto, laboratorio.»
«Sono il dottor Traini, dalla Pediatria.
Potete farmi lo striscio al vetrino per la ricerca del Plasmodium? Ho un bambino con febbre alta tornato dal Kenya… non vorrei avesse contratto la malaria.»
«Collega, ma se hai questo sospetto devi trasferirlo a Bari, alla clinica delle malattie infettive.»
«Sì, sì, vorrei mandarlo con una diagnosi di certezza.»
«Va bene… ci provo. Mandami il bambino così faccio lo striscio.
Per correttezza ti dico che per me è la prima volta che cerco nel sangue il Plasmodium. Se c'è, spero di riconoscerlo.»
«Dai, collega… apprezzo la tua correttezza, ma non dire così.
Anche per me è la prima volta che sospetto una malaria, e sono arrivato a 70 anni.
Te lo mando subito.»
Torno in infermeria.
«Rebecca, per favore, accompagna Michelino al Laboratorio Analisi.»
E scrivo la richiesta.
Rebecca la legge, la mamma la legge.
«Dottore...» – mi fa la madre – «ma lei pensa che mio figlio abbia la malaria?»
«Signora, mi conferma che lì dove siete stati il clima era caldo e umido, che erano presenti acquitrini e anche zanzare?»
«Sì, purtroppo sì.
Ma noi stiamo bene, sia io che mio marito.»
«Ora pensiamo a Michelino, poi vedremo voi.
Io spero di sbagliarmi, ma se così non fosse, o anche se l'analista dovesse avere un dubbio, dovrò trasferire il bambino a Bari, alla clinica delle malattie infettive.»
Ho l'impressione che la giovane signora solo ora inizi a percepire la gravità del sospetto diagnostico.
Ha la fronte sudata, sotto le ascelle l'alone del sudore sulla camicia si allarga rapidamente, i capelli sono spettinati e lo sguardo è molto teso e preoccupato.
Poi si ricompone:
«Michelino, andiamo.»
Sostiene il bambino con le braccia.
«Andiamo, seguiamo la signora Rebecca.»
E prima di uscire, Rebecca mi lancia uno sguardo ammirato, ed io rispondo con un'espressione:
«Niente di serio.»