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Politica

Referendum, il quorum mancato è una sconfitta politica collettiva. Ma i temi restano sul tavolo

A Bisceglie il sì ha prevalso in modo netto nei quesiti sul lavoro. Più articolato l'esito del quesito sulla cittadinanza

Un'altra domenica referendaria finisce nel silenzio delle urne vuote. Con un'affluenza ferma al 29,79% in Italia, 28,44% in Puglia e appena 29,66% a Bisceglie, il quorum non è stato raggiunto. E la partita si chiude formalmente qui. Ma non c'è nulla di formale nei quesiti posti agli elettori, né nella responsabilità – politica, culturale, istituzionale – che questo voto ha fatto emergere con drammatica chiarezza.

Cinque schede, cinque temi che toccano nervi scoperti della vita sociale: licenziamenti, contratti a termine, sicurezza nei subappalti, dignità del lavoro, cittadinanza. Questioni che avrebbero meritato dibattito, confronto, chiarezza. Invece, il Paese politico – salvo alcune eccezioni nel campo delle opposizioni – ha scelto di tacere. Anzi, ha fatto di più: ha suggerito l'astensione, come fosse un atto di neutralità e non, com'è in realtà, una precisa strategia per impedire al corpo elettorale di pronunciarsi.

La maggioranza ha giocato la carta della diserzione attiva. È un copione già visto: si evita la sostanza dei quesiti, si punta sul fallimento procedurale. Poco importa se dietro quella scheda verde c'era il tentativo di restituire dignità ai lavoratori licenziati ingiustamente. O se la scheda rosa intendeva riaffermare un principio elementare di responsabilità nei cantieri e negli appalti. O se la scheda gialla riproponeva il tema mai risolto della cittadinanza come diritto, e non come concessione.

I risultati – per quanto resi ininfluenti dal mancato raggiungimento del quorum – parlano comunque un linguaggio chiaro: nei quattro quesiti sul lavoro il "Sì" ha prevalso in modo netto, con percentuali bulgare, segno che chi ha votato ha voluto mandare un messaggio forte su diritti e tutele. Più articolato, invece, l'esito del quesito sulla cittadinanza: il 67,96% ha votato "Sì", il 32,04% ha detto "No". Un dato che, pur indicando una chiara maggioranza favorevole alla riforma, suggerisce una società più divisa, più incerta, forse meno preparata a riconoscere in pieno il principio dello ius soli culturale e dei diritti civili per chi è nato e cresciuto qui, ma resta formalmente straniero.
Il Parlamento, che dovrebbe essere il luogo naturale del confronto sulle grandi riforme, da anni rimuove questi nodi. E quando la parola torna ai cittadini, lo fa senza accompagnamento, senza informazione, senza consapevolezza. I promotori – dalla CGIL al mondo dell'associazionismo – hanno fatto il possibile per colmare un vuoto che però non può essere compensato senza un sistema politico disposto a fare il proprio mestiere.

Certo, non è la prima volta che un referendum fallisce. Ma ogni volta che accade, si perde un pezzo di fiducia nella democrazia diretta, già corrosa dalla tecnicalità e dalla mancanza di educazione civica. Stavolta, però, c'è di più. Perché mentre i cittadini si allontanano, le diseguaglianze si avvicinano. E chi lavora senza tutele, chi vive da anni in Italia senza pieni diritti, chi rischia la vita in un cantiere senza garanzie, continuerà a non trovare risposta.

Ciò che resta, quindi, è una domanda non sul referendum, ma sulla politica: può ancora essere all'altezza delle sue funzioni costituzionali? Può ancora ascoltare, rappresentare, decidere? Se c'è un lascito di questa consultazione, è proprio questo: l'urgenza di riaprire spazi di rappresentanza autentica, senza scorciatoie. Perché la legittimità di una classe dirigente non si misura sulla tattica elettorale, ma sulla capacità di affrontare i conflitti veri della società.

La democrazia, si sa, non è solo procedura. È soprattutto partecipazione. E stavolta, purtroppo, è mancata l'una e l'altra.
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