
Politica
Referendum, il quorum mancato è una sconfitta politica collettiva. Ma i temi restano sul tavolo
A Bisceglie il sì ha prevalso in modo netto nei quesiti sul lavoro. Più articolato l'esito del quesito sulla cittadinanza
Bisceglie - martedì 10 giugno 2025
8.37
Un'altra domenica referendaria finisce nel silenzio delle urne vuote. Con un'affluenza ferma al 29,79% in Italia, 28,44% in Puglia e appena 29,66% a Bisceglie, il quorum non è stato raggiunto. E la partita si chiude formalmente qui. Ma non c'è nulla di formale nei quesiti posti agli elettori, né nella responsabilità – politica, culturale, istituzionale – che questo voto ha fatto emergere con drammatica chiarezza.
Cinque schede, cinque temi che toccano nervi scoperti della vita sociale: licenziamenti, contratti a termine, sicurezza nei subappalti, dignità del lavoro, cittadinanza. Questioni che avrebbero meritato dibattito, confronto, chiarezza. Invece, il Paese politico – salvo alcune eccezioni nel campo delle opposizioni – ha scelto di tacere. Anzi, ha fatto di più: ha suggerito l'astensione, come fosse un atto di neutralità e non, com'è in realtà, una precisa strategia per impedire al corpo elettorale di pronunciarsi.
La maggioranza ha giocato la carta della diserzione attiva. È un copione già visto: si evita la sostanza dei quesiti, si punta sul fallimento procedurale. Poco importa se dietro quella scheda verde c'era il tentativo di restituire dignità ai lavoratori licenziati ingiustamente. O se la scheda rosa intendeva riaffermare un principio elementare di responsabilità nei cantieri e negli appalti. O se la scheda gialla riproponeva il tema mai risolto della cittadinanza come diritto, e non come concessione.
I risultati – per quanto resi ininfluenti dal mancato raggiungimento del quorum – parlano comunque un linguaggio chiaro: nei quattro quesiti sul lavoro il "Sì" ha prevalso in modo netto, con percentuali bulgare, segno che chi ha votato ha voluto mandare un messaggio forte su diritti e tutele. Più articolato, invece, l'esito del quesito sulla cittadinanza: il 67,96% ha votato "Sì", il 32,04% ha detto "No". Un dato che, pur indicando una chiara maggioranza favorevole alla riforma, suggerisce una società più divisa, più incerta, forse meno preparata a riconoscere in pieno il principio dello ius soli culturale e dei diritti civili per chi è nato e cresciuto qui, ma resta formalmente straniero.Il Parlamento, che dovrebbe essere il luogo naturale del confronto sulle grandi riforme, da anni rimuove questi nodi. E quando la parola torna ai cittadini, lo fa senza accompagnamento, senza informazione, senza consapevolezza. I promotori – dalla CGIL al mondo dell'associazionismo – hanno fatto il possibile per colmare un vuoto che però non può essere compensato senza un sistema politico disposto a fare il proprio mestiere.
Certo, non è la prima volta che un referendum fallisce. Ma ogni volta che accade, si perde un pezzo di fiducia nella democrazia diretta, già corrosa dalla tecnicalità e dalla mancanza di educazione civica. Stavolta, però, c'è di più. Perché mentre i cittadini si allontanano, le diseguaglianze si avvicinano. E chi lavora senza tutele, chi vive da anni in Italia senza pieni diritti, chi rischia la vita in un cantiere senza garanzie, continuerà a non trovare risposta.
Ciò che resta, quindi, è una domanda non sul referendum, ma sulla politica: può ancora essere all'altezza delle sue funzioni costituzionali? Può ancora ascoltare, rappresentare, decidere? Se c'è un lascito di questa consultazione, è proprio questo: l'urgenza di riaprire spazi di rappresentanza autentica, senza scorciatoie. Perché la legittimità di una classe dirigente non si misura sulla tattica elettorale, ma sulla capacità di affrontare i conflitti veri della società.
La democrazia, si sa, non è solo procedura. È soprattutto partecipazione. E stavolta, purtroppo, è mancata l'una e l'altra.
Cinque schede, cinque temi che toccano nervi scoperti della vita sociale: licenziamenti, contratti a termine, sicurezza nei subappalti, dignità del lavoro, cittadinanza. Questioni che avrebbero meritato dibattito, confronto, chiarezza. Invece, il Paese politico – salvo alcune eccezioni nel campo delle opposizioni – ha scelto di tacere. Anzi, ha fatto di più: ha suggerito l'astensione, come fosse un atto di neutralità e non, com'è in realtà, una precisa strategia per impedire al corpo elettorale di pronunciarsi.
La maggioranza ha giocato la carta della diserzione attiva. È un copione già visto: si evita la sostanza dei quesiti, si punta sul fallimento procedurale. Poco importa se dietro quella scheda verde c'era il tentativo di restituire dignità ai lavoratori licenziati ingiustamente. O se la scheda rosa intendeva riaffermare un principio elementare di responsabilità nei cantieri e negli appalti. O se la scheda gialla riproponeva il tema mai risolto della cittadinanza come diritto, e non come concessione.
I risultati – per quanto resi ininfluenti dal mancato raggiungimento del quorum – parlano comunque un linguaggio chiaro: nei quattro quesiti sul lavoro il "Sì" ha prevalso in modo netto, con percentuali bulgare, segno che chi ha votato ha voluto mandare un messaggio forte su diritti e tutele. Più articolato, invece, l'esito del quesito sulla cittadinanza: il 67,96% ha votato "Sì", il 32,04% ha detto "No". Un dato che, pur indicando una chiara maggioranza favorevole alla riforma, suggerisce una società più divisa, più incerta, forse meno preparata a riconoscere in pieno il principio dello ius soli culturale e dei diritti civili per chi è nato e cresciuto qui, ma resta formalmente straniero.Il Parlamento, che dovrebbe essere il luogo naturale del confronto sulle grandi riforme, da anni rimuove questi nodi. E quando la parola torna ai cittadini, lo fa senza accompagnamento, senza informazione, senza consapevolezza. I promotori – dalla CGIL al mondo dell'associazionismo – hanno fatto il possibile per colmare un vuoto che però non può essere compensato senza un sistema politico disposto a fare il proprio mestiere.
Certo, non è la prima volta che un referendum fallisce. Ma ogni volta che accade, si perde un pezzo di fiducia nella democrazia diretta, già corrosa dalla tecnicalità e dalla mancanza di educazione civica. Stavolta, però, c'è di più. Perché mentre i cittadini si allontanano, le diseguaglianze si avvicinano. E chi lavora senza tutele, chi vive da anni in Italia senza pieni diritti, chi rischia la vita in un cantiere senza garanzie, continuerà a non trovare risposta.
Ciò che resta, quindi, è una domanda non sul referendum, ma sulla politica: può ancora essere all'altezza delle sue funzioni costituzionali? Può ancora ascoltare, rappresentare, decidere? Se c'è un lascito di questa consultazione, è proprio questo: l'urgenza di riaprire spazi di rappresentanza autentica, senza scorciatoie. Perché la legittimità di una classe dirigente non si misura sulla tattica elettorale, ma sulla capacità di affrontare i conflitti veri della società.
La democrazia, si sa, non è solo procedura. È soprattutto partecipazione. E stavolta, purtroppo, è mancata l'una e l'altra.