Paolo Villaggio
Paolo Villaggio
Il pizzicotto

Ciao Paolo

Dopo Villaggio resta solo Zalone all'Italia che ha smesso di prendersi in giro

Ho sempre provato una sorta di tristezza esistenziale nel guardare i film di Paolo Villaggio.
Era un rito, farlo con seduta accanto a mio padre e di fronte alla tv: lui che fumava con la pipa grande, io con una piccola pipa da posa, tabacco spento e tutto il desiderio di assomigliargli dentro.
Sapeva scrivere di satira, mio padre, e se per lui Fantozzi era un mito inossidabile, avrei dovuto capire il motivo. Certamente travalicava le doti attoriali, l'espressività di quella figura imbarazzante che mi creava disagio, la continuità della sua presenza televisiva. C'era una grandezza letteraria e antropologica che non riuscivo ad afferrare. Ai miei compagni delle scuole elementari piaceva, al punto che tutti ne imitavano le gesta. Non ridevo.
Non ridevo delle disavventure dello sfortunato ragioniere, perché non conoscevo la vita. Quella che ti mette gli abiti di Ugo tutti i giorni e ti costringe a diventare "cattivo e intelligente" come Villaggio a costumi smessi, nella vita reale.
Sebbene non abbia mai imparato a ridere delle disavventure dell'impiegato – capro espiatorio, oggi sono certa sia scomparso, dopo una vecchiaia triste, uno degli interpreti di punta della comicità italiana.
Quella che l'Italia non ci regala più. La dipartita di Villaggio, ci consegna un Paese che non sa più scherzare seriamente: sa fare propaganda.
L'Italia di Beppe Grillo e dei grillini, ci lascia orfani. L'ultimo mito è Checco Zalone, che ci restituisce la grettezza media dell'italiano a tutto tondo. Degno erede del ragioniere, Checco ha ancora strada da fare. Quando si libererà dai lieti fini e dai gioghi dell'industria cinematografica, sarà una maschera "per sempre". Senza quelle indulgenze di cui il pubblico finge di avere bisogno ma in fondo non vuole.
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