Cavallino. <span>Foto Liliana Salerno</span>
Cavallino. Foto Liliana Salerno
Le parole di Sherazade

Il falcone del re - seconda parte

Rubrica a cura di Liliana Salerno

Se la prima parte della favola "Il falcone del re" vi ha incuriositi (link all'articolo), non potete di certo perdervi la seconda.
È l'avventura di un re, che cavalcava il suo cavallo bianco, e il suo compagno di caccia, un falco, che aveva avuto in dono la facoltà della parola. I comportamenti e le caratteristiche dei personaggi si distinguono molto dai racconti tradizionali: questo aspetto rende originale e interessante ogni opera scritta da Liliana Salerno.
a cura di Luca Ferrante

Secondo capitolo

Era vestito degli abiti che i cavalieri portano sotto l'armatura: una sorta di pigiamone in lana spessa, ormai molto sporco. Il Re avvertì tutto il peso della propria situazione, non solo di abbattimento per la condizione perduta, ma anche di mancanza di pulizia.
Prima di immergersi domandò al falcone cieco: «Ti sembro un Re?»
Il falcone, pur non vedendo gli rispose: «No Sire, ma un Re è colui che lo è, non colui che lo sembra».
Il sovrano si infuriò di fronte a quella che gli era sembrata una astrusità filosofica, poi prese il cavallo per le briglie e disse: «Un buon bagno non farà male a nessuno dei tre». Così si inoltrarono, nelle basse acque del lago.
Il cavallo zoppo nuotava, ma rallentava di molto l'andatura del suo Signore.
Il falcone avvertiva il pelo dell'acqua sotto gli artigli, mentre un senso di quiete familiare si era impadronito di lui. Taceva, come se l'impossibilità di guardare l'orizzonte, o di levarsi in volo, non lo infastidisse più di tanto. Ma nel silenzio comprimeva il desiderio degli spazi, delle altezze. Per esempio, pensava, che, se avesse potuto levarsi in volo, avrebbe misurato tutto il lago con un solo sguardo, dall'alto, ne avrebbe individuato i vortici segreti ed avrebbe saputo con certezza quello che si celava nei canneti.
Il suo padrone nuotava felice.
Il cavallo, povera bestia insulsa, obbediva.

Ed intanto, una bracciata dietro l'altra, era incominciato un altro viaggio, perché anche la riva lasciata era divenuta un altro orizzonte.
Il falcone ebbe un sussulto, poi si chinò sull'acqua per bagnarsi il becco, ma il cappuccio di cuoio glielo impediva.
Sua Maestà se ne accorse ma non poté che dire: «Lo so, amico mio, e vorrei, credimi, vorrei liberarti il becco, ma questo lago è sorto per incanto dalle mie armature; non so cosa potrebbe accadere se lo facessi, ma sta calmo, non c'è motivo di preoccuparsi: l'acqua è calda e un po' profonda, ma noi sappiamo nuotare bene!»
«Sire» - rispose il falco – «permettetemi, Vi prego di immergere per intero una zampa nell'acqua, sicché io possa misurarne la temperatura».
Il sovrano, tranquillo, lo accontentò, ma il falcone dopo un poco riprese, chiedendo: «Maestà, quale orizzonte vedevate di fronte a Voi quando ci siamo immersi nelle acque?»
«Come quale orizzonte? Questo lago è nato in una foresta, dunque è circondato dalla foresta. Vedevo la foresta. Del resto uno è l'orizzonte. Usciremo dall'altra parte della foresta».
«Perdonatemi Sire, dall'altra parte della foresta dovevamo essere già usciti da un pezzo» ribatté il pennuto; e poi ancora: «Vi prego ditemi, quale orizzonte vedete ora di fronte a Voi?»
«Ci sono dei canneti, amico mio, l'orizzonte non è visibile, ma non per questo ci dobbiamo preoccupare!»
«Sire, ascoltatemi, in ogni storia l'orizzonte non è mai uno. Forse non avete ascoltato le parole del puka, quando Vi diceva che avrete occasione di dimostrare ciò che valete per quello che siete, perché in questo momento Voi non sapete quello che siete, come è vero che non sapete dove siete».
Sua altezza rispose con candore: «Sono in un lago e sto nuotando col mio cavallo ed il mio falcone».
«… E questo Vi basta!» completò il falcone che aveva invece un'altra visione della situazione.
Sua Maestà si distese nelle acque nella posizione del "morto", stanco delle bracciate, ma il falcone, colpito dal tepore di un raggio di sole pensò fossero usciti dal canneto e fosse giunto quindi il tempo di domandare ancora: «Sire, quale orizzonte vedete ora di fronte a Voi?»
Sua Maestà si drizzò a guardare, ma non poté proferir parola. Ristette un pezzo incredulo, poi, senza fiatare chiuse la mano a conca, la riempì d'acqua e la portò alle labbra: era salata. E un vento di tramontana, impetuoso, di già muoveva i fondali.
Lontano, lontano, si profilava l'orizzonte, e diceva di un piccolo porto di pescatori, assediato da sei galeoni con i cannoni puntati, a destra, di una scogliera desolata, a sinistra.
Il falco taceva come chi non vuol far pesare le proprie ragioni.

Per una volta il suo silenzio fu proficuo, perché il Re decise bene di non presentarsi, come un naufrago, in una città assediata, di cui non conosceva le usanze.
Si diressero dunque verso la scogliera, che il vento di tramontana frustava di lunghe onde marine. Con molta pazienza e buona volontà il Re cercò un punto praticabile, per sé e per il cavallo, che già zoppo, faceva fatica a seguirlo.
Camminarono, a lungo, sulla rocciosa spiaggia calcarea, sferzati da una pioggia di tramontana. Così, pian piano, si avvicinarono alla periferia della città, che nella notte sembrava un giocattolo. Si avvicinarono ad un fienile, poi si entrarono decisi in una stalla, dove decisero di pernottare. Caddero in un sonno profondo, senza sogni. Più buio della stessa notte che li accompagnava.
Contavano di andar via prima dell'alba, e magari di mungere un po' di latte dalle mucche, prima che il massaro potesse accorgersene, ma furono svegliati da un suono festoso di campane.
Sua Maestà tentò di stringere la mammella di una mucca, ma ricevette un calcio in piena faccia. Lo attribuì alle sue scarse attitudini, ma era arrivato tardi.
Quindi si alzò sconsolato, riprese il cavallo ed il falco e si accinse ad uscire dalla stalla. Con sua enorme sorpresa i battenti erano chiusi dall'esterno. Ed ancora una volta si sentì prigioniero di una situazione.
Cercò una via d'uscita, ma, prima che potesse realizzare un pensiero concreto, il battente della porta d'ingresso della stalla si schiuse: in un raggio violento di sole il Re intravide due figurette minute, vestite da contadini, di cui una, un ragazzetto dai capelli rossi, reggeva una ciotola dall'odore invitante.
«Buongiorno» - disse al Re – «Ben levato, era ora che Vi svegliaste: avete rubato il tempo alla luce!» Nel dire questo si accostò al sovrano e gli porse la ciotola: era una minestra di farro, completa di cucchiaio di legno, di quelli che si usano in campagna.
Sua Maestà era abituato a ben altro tipo di posate, ed era, nonostante la fame, titubante e diffidente.
Il falco che lo conosceva da diversi anni, comprese la ragione della sua difficoltà e lo picchiò fortemente col becco, fra i capelli, prima che la sua indecisione risultasse ingratitudine e scostumatezza.
Allora il Re affondò il cucchiaio nella zuppa, mentre il ragazzo dai capelli rossi gli porgeva una pagnotta di pane casereccio.
«Poi» - gli disse – «abbiamo cacio e frutta, vero Valentina?»
Valentina, una bambina lentigginosa, dalle trecce bionde annuì, facendo tremare il catino d'acqua pulita che aveva tra le mani.
Il Re mangiò in silenzio, senza tovaglia, senza posate d'argento, senza calici di cristallo. Quando ebbe finito, la bimba gli avvicinò il catino di stagno, pieno d'acqua di fonte, ma non aveva unguenti o profumi per detergere Sua Maestà, solo un canovaccio ruvido, di canapa, per asciugargli il volto, ma lui ringraziò comunque con buone maniere, poi si alzò e fece l'atto di prendere commiato.
La voce di Valentina lo sorprese: «Martino, non credi che il Signore ci debba qualcosa?»
Martino rispose: «È vero, egli ci deve qualcosa».
Il sovrano si strinse nelle spalle, come impaurito, poi domandò: «Vi ho già ringraziati, cos'altro vi devo?»
«Oh, il Vostro grazie è nulla, Signore, se pensate che non Vi abbiamo nemmeno denunciato alle Autorità».
«È vero» proseguì Valentina, «avremmo dovuto denunciarVi all'alto Commissario di Polizia!»
«Perché non lo avete fatto?» domandò stupefatto il Re. «Perché la città è in guerra» riprese Valentina, «e la Giustizia, oggi come oggi, è piuttosto sbrigativa e sommaria: Voi siete entrato di nascosto nella nostra stalla, ma non avete rubato né distrutto niente. Non sappiamo perché lo abbiate fatto, ma consegnandoVi alla Giustizia corriamo il rischio di vedere giustiziato un innocente. Perciò Vi chiediamo di pagare un pedaggio per Voi e per le Vostre bestie».
«Ma io non ho moneta sonante con me» rispose impulsivo il Re, subito colpito, dal falco, tra i capelli.
Martino e Valentina si chiusero in disparte e parlottarono a lungo tra di loro. Erano incerti sulla decisione da prendere, ed in silenzio bisticciarono, poi Martino assunse un fare deciso e si rivolse al Re: «Dal falcone che porti gelosamente con te deduco che non sei un uomo di pace, e chi nasconde un soldato fuggiasco o disertore, in questa città, che da lungo tempo è in guerra, rischia di fare la fine dello stesso. Poiché abbiamo rischiato la vita per poterti comodamente ospitare è d'uopo che tu possa disobbligarti. Non ti possiamo impunemente far andar via. Dovrai pagare il tuo pedaggio in venti giorni di lavoro presso di noi. Ti sarà richiesto di fare quello che è necessario. Poi potrai prendere le tue povere cose e tentare fortuna, ma noi ti consigliamo di riprendere la strada da cui sei venuto, piuttosto che entrare in città».
«Va bene» rispose il Re, certo di essersela cavata a buon mercato! «Ma ditemi, piuttosto, per che cosa si combatte e da quanto dura questa guerra?»
Valentina si infilò le mani nei capelli, poi esclamò: «Ma di dove siete, Signore? Come? Non conoscete questa guerra?»
«Dovrei conoscerla per forza?» ribatté il Re.
Martino rispose: «È tristemente nota e sanguinosa. Dura ormai da dieci anni e solo la testardaggine di una donna la rende possibile!»
«Dite!» esclamò serioso il Re.
«Certo!» replicò Martino, «perché se la nostra amata ed adorata Principessa Ninfea fosse meno ostinata, oggi non avremmo nel porto le navi di Re Remigio, che continua ad assaltare e distruggere le nostre mura».
Valentina aggiunse: «Del resto, quale che sia l'esito della battaglia è solo lei che ne decide la sorte».
«Ninfea» bisbigliò pensieroso il nostro Re. Il falcone lo ascoltò e gli suggerì all'orecchio: «Chiedete ancora».
Allora si fece baldanzoso e si rivolse a Martino: «Scusate Martino, voi dite che la Principessa Ninfea tiene in piedi una guerra da dieci anni: non ha cura delle sue genti?»
«Oh!» disse Martino, «non è questo! Perché all'interno del suo regno, ed in tempo di pace, la Principessa è stata un simbolo di gioia!»
«Allora perché adesso trascina il popolo nel sangue?»
Gli rispose Valentina: «Perché non vuol cedere al suo futuro sposo il suo orsacchiotto di peluche».
«Come?» domandò esterrefatto il Re: «non vuol cedere un orsacchiotto di peluche?» Ma il falco di già lo colpiva dietro l'orecchio e gli suggeriva di domandare meglio di questo oggetto, per cui il Sovrano sedette fra i due bambini e domandò: «E perché non lo vuole cedere? E perché Re Remigio lo vuole?»
Rispose Martino: «Re Remigio lo vuole per distruggerlo, perché rappresenta un periodo della vita di Ninfea che non è sua. La Principessa, invece, quella vita, di bambina, la vuole conservare, così il giorno del loro fidanzamento ufficiale fecero lite: e sono dieci anni che Re Remigio tenta di distruggere l'orsacchiotto per sposare la Principessa Ninfea, la quale, invece, pare non se ne separi mai».
Valentina aggiunse: «Dicono che lo lavi con cura, che lo accarezzi e lo stringa al petto, con più dolcezza che se fosse una persona, e che la notte l'orsetto dorma con lei».
Intervenne Martino: «Re Remigio ne è geloso, più che se si trattasse di un uomo in carne ed ossa. Per questo cerca in tutti i modi di ucciderlo; ma sono dieci anni che non gli riesce!»
Il falcone, all'orecchio del Re, rifece il verso ad una osservazione del puka: «Quanto legno e ferrame, per un orsetto solo!»
Ma il Re ormai non lo ascoltava. La storia di Ninfea, ed il suo nome così suadente, lo scorrere di acque tranquille che quel nome riportava alla mente, lo metteva lievemente in ansia. La sua anima di soldato e cavaliere sapeva solo di una donna aggredita, assediata nel suo regno, insidiata in quello che aveva di più caro.
Per quanto non riuscisse a condividere l'attaccamento morboso per un oggetto, pertanto la sentiva indifesa e sola, di fronte ad un nemico armato di cannoni.
Per cui esclamò incauto: «La difenderò io!» E nel dir questo si levò in piedi, già nell'atto, per lui consueto, di brandire una fantomatica spada.
Martino e Valentina balzarono in piedi, a loro volta, guardandosi esterrefatti: «Cosa volete dire, Signore?» esclamarono in coro, aggrappandosi alle sue braccia, per metterlo a sedere.
Il Re si lasciò condurre, come di nuovo consapevole della propria condizione, poi ascoltò il sermoncino dei due bambini che gli dicevano: «Come potete pensare che un semplice soldato, disertore chissà da dove, spoglio, senza armi, possa intromettersi nelle questioni dei Reali? Re Remigio vi vedrà sulla forca, perdio!, non varrà a nulla l'avervi salvato!»
«Martino, Valentina» rispose il Re, «io vi sono veramente grato di avermi salvato, ma il mio aspetto vi inganna circa la mia natura.
Io vi chiedo semplicemente di tenermi con voi, per qualche tempo, come avevate desiderato. Poi, col mio lavoro, comprerò abiti dignitosi, ma anche armi per difendere la Principessa Ninfea dall'indesiderato Remigio».
Valentina si oppose: «È vietato tenere armi in casa; le armi della città sono tutte sui bastioni, e in quanto a Re Remigio, che sia desiderato o no, Ninfea lo deve sposare, perché è il solo spasimante del suo rango, ed il nostro paese deve avere una discendenza.»
«Valentina ha ragione», soggiunse Martino, «non rischieremo la vita per tenere in casa le vostre inutili armi: sono poco opportune, per la questione in cui vi volete cimentare».
«D'accordo» - rispose il Re - «non introdurrò armi indesiderate nella vostra casa, ma sono un cavaliere, e non posso rinunciare alla mia impresa. Ditemi: come posso presentarmi al cospetto di Sua Maestà la Principessa Ninfea?»
«Ah, ah, ah!» risero in coro i due bambini e Valentina lo canzonò: «Al cospetto della Principessa Ninfea?… Uno straccione!»
Ma Martino smise di ridere e batté amichevolmente la mano sulla spalla del Sovrano: «Ascoltatemi, amico mio, lasciate da parte i pensieri folli e date ascolto ai consigli concreti. Nessuno di noi, poveri contadini, potrà mai introdurvi a corte, ma conosco il modo che vi consentirà di intravedere, e forse vedere, la Principessa Ninfea.
Siate di parola, lavorate nel mio campo, poi, quando il vespro sarà giunto, recatevi, come volontario, tra i cittadini che ricostruiscono le mura abbattute, e lì, lavorate alacremente.
Ogni sera Ninfea passa in cocchio a controllare che la difesa sia approntata con efficienza: e se avrete un briciolo di fortuna il suo cocchio potrà fermarsi davanti a voi».
Sua Maestà ringraziò Martino stringendogli entrambe le mani, come per un benefattore, poi questi, con Valentina, si allontanò per aspettarlo nei campi, al mattino seguente.
Rimasti soli il Re si rivolse al falco per consiglio. Ma intese di aver agito bene, perché questi dormiva.

Nuovo appuntamento con "Le parole di Sherazade" di Liliana Salerno martedì 20 ottobre
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