Hiroshima
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Cartoline dal Giappone, parte terza: ad Hiroshima il ricordo dell'orrore

E quel triciclo di un bimbo arso vivo di cui si è persa ogni traccia

Ho chiesto a Giuseppe se potessimo raggiungere Hiroshima.
Lui ci era già stato per un congresso e mi ha guardato stranito: «Hiroshima è solo una grande città di stile occidentale. C'è solo un'isoletta con un tempio da visitare: per il resto niente».
Ho ringraziato Dio per la sua sana mancanza di conoscenza ed ho aggiunto: «prendi i biglietti dello Scincanzen».

A primo impatto Hiroshima è una grande metropoli, con grattacieli e negozi di alta moda italiana e francese.
Sulle sue grandi arterie del traffico, sfrecciano automobili nuove, di ultima generazione, naturalmente giapponesi: la Mazda la fa da padrone, non mancano Toyota e Nissan. Poi ci sono le onnipresenti auto tedesche: Audi, Mercedes, BMW. Mi sono sentito bene quando ho riconosciuto un Giulietta bianca e lucida.

Abbiamo attraversato il ponte sul fiume di Hiroshima e sulla destra in lontananza l'ho intravista: la cupola della bomba atomica. Centinaia di persone si dirigevano verso di lei, ma il mio sguardo era già catturato dalla sua spettrale visione.

Mi sono ritornate in mente le parole che un signore ultra ottantenne mi aveva detto la sera precedente in traduzione simultanea, in un caratteristico locale di Kyoto. Gli avevo chiesto della guerra, degli americani, dell'atomica. Lui si era fermato un momento. A quel punto, deciso ad accarezzarlo psicologicamente, gli avevo detto: «Certo che la Germania dopo aver provato a conquistare l'Europa con l'acciaio dei suoi carri armati e non esserci riuscita, lo ha fatto con l'acciaio delle sue automobili. Il Giappone, dopo aver retto il suo impero sulle isole del Pacifico, sulla Cina e aver sconfitto anche la Russia, poi ha dovuto arrendersi alla bomba atomica».
E lui, fissandomi negli occhi con i suoi neri, a mandorla e penetranti: «Sono oltre settanta anni che si parla in tutto il mondo della bomba atomica, ma solo un popolo ha provato sulla sua pelle tutto questo ed è il popolo giapponese».

Mi sono fermato impietrito davanti alla Casa della Bomba e ho fatto il segno della croce.
Tutto è rimasto fermo lì, a quella mattina del 6 agosto.
Attraverso le pareti bruciate, le volte scoperchiate, i tufi disseminati, sembra di ascoltare le poche urla di dolore dei pochi sopravvissuti, che nel tentativo di proteggersi dal calore devastante andarono a finire arsi nelle acque del fiume ormai trasformato in inferno.
Tra i pochi oggetti rimasti quello che mi è rimasto stampato nella memoria c'è un triciclo ... il triciclo bruciato di un bambino arso vivo di cui si è persa traccia.
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