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Il pizzicotto

Il diritto di informare e il dovere della buona educazione

Cronaca di un faccia a faccia tra una donna della stampa e uomini in divisa

Chi ci conosce sa di che pasta siamo fatti.
Abbiamo la pellaccia dura e sentiamo la maledetta urgenza di insistere in una professione che frutta poco, non lascia tregue e comporta rischi quotidiani di difficile previsione.
Io, Vito, Mario, Felicia e i tanti che si sono uniti a noi e danno carne all'ossatura della redazione quotidianamente, non siamo facili a gettare la spugna.
Chi non c'è dentro fino al collo stenterà sempre a capire cosa ci spinga a farlo, rinunciando a sonno, vacanze, sollazzi improvvisati, in cambio di una massiccia dose di responsabilità verso un pubblico di lettori che sa ripagare con la moneta della stima.
Ci sono volte in cui la tentazione di buttare la spugna ci accarezza a turno le idee, ma poi è la penna a consolarci e darci la forza per spingere, al contrario, sull'acceleratore.
Questa, per quanto mi riguarda, è una di quelle volte, in cui solo scrivere può ripagare dalla mortificazione, provata su quel posto di lavoro – che per un giornalista è ancora la strada – che condividevo con le forze dell'ordine.
Una sparatoria in pieno giorno, su strada pubblica, mi aveva portato sul luogo del delitto.
Al sole per ore, ero rimasta nel silenzio appartato del giardino di un capannone confinante sulla strada. Sola, dietro le sbarre arroventate dai 40° netti di un'estate da record, perché al contrario di quanto concesso a molti colleghi, a me non era stato accordato il permesso di catturare immagini accedendo alla scena del crimine.
Non è la prima volta che accade, né sarà l'ultima, che, scambiandomi per una mamma curiosa, non credano al fatto che una donna sola possa fare la giornalista e mi allontanino.
Non la chiamo discriminazione di sesso, solo perché non sopporto le generalizzazioni. Mettiamo che a me capita così e basta.
L'ho sempre presa in grazia di Dio, con pazienza, ben conoscendo l'atteggiamento di fastidio generalizzato che gli uomini in divisa provano per la stampa con cui dovrebbero collaborare e la misoginia non troppo velata dei militari.
Questa volta, però, l'asticella è stata valicata. Mi sento ferita, percossa nell'orgoglio.

Non conosco l'agente che, con l'avallo o nel silenzio dei colleghi, mi ha prima cacciato dalla proprietà privata consentendo a tutti gli altri che erano sul posto di restare, poi al mio "perché?" ha alzato la voce, richiesto generalità e documento di identità e con concitazione mi ha allontanata, con l'idea di portarmi successivamente in caserma.
Non so perché lo abbia fatto, né come avrei potuto disturbare le indagini dall'esterno del perimetro del luogo del delitto, dove in tanti si appostavano come me. Non mi è stato permesso di chiederglielo e non l'ho fatto.
È stato avvilente, molto avvilente, farsi cacciare di fronte a centinaia di lettori, per aver commesso il fatto di essere presente, senza fare una sola domanda, né avere nulla a pretendere.
È stato umiliante dover attendere che mi concedessero la restituzione del documento lunghi minuti più tardi, quasi in segno di benevolenza dopo una marachella perdonata.
Non una parola è seguita alla restituzione della carta. Non da loro.
Solo un segno a fare un giro a piedi di chilometri, in pieno sole, nei campi sterrati a largo dell'area in cui non avrei mai dovuto più mettere piede. Costretta ad un muro di gomma ho girato i tacchi e sono andata. Pronta, la prossima volta, a tornare.
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