Pantano
Pantano
Le ragnatele di Ersilia

Il Pantano. La terra promessa

Rubrica di cultura e società

Vi parlerò di come sorse il sole
Un lembo dopo l'altro.
Nel viola erano immersi i campanili
L'annuncio corse come uno scoiattolo
Le colline si tolsero la cuffia
Iniziarono a cantare i bobolink .
Allora io mi dissi piano piano:
"di certo è stato il sole!"
Ma come tramontò, non lo so dire.
Sembrava che ci fosse una scaletta
purpurea per andare oltre la siepe
e che gialli bambini, maschi e femmine,
salissero, finché, dall'altra parte,
un Pastore vestito tutto in grigio
alzò piano le sbarre della sera
e condusse piano la brigata.

Emily Dickinson


Ogni città possiede un luogo non ancora urbanizzato, una strada che segna il confine tra la natura e il cemento, una strada che sembra essere "terra di nessuno" perché lasciata all'incuria, un'incuria che pare, però, averla salvata dal disastro.
Il disastro siamo noi, le nostre abitazioni, le strade strette non progettate per contenere tante auto, l'aria che sa di plastica bruciata, il polistirolo che viene a riva quando il mare è in tempesta, gli alberi malati destinati alla morte.
Siamo concentrati soltanto su noi stessi, curiamo il nostro corpo meticolosamente e quotidianamente come se fosse una cosa sganciata dal resto dell'ambiente in cui viviamo, come se tutto quello che sta al di fuori del nostro corpo non ci riguardi.

Esistono, però, un mondo interno ed uno esterno che hanno necessità di incontrarsi e procedere insieme. Se volessimo salvaguardare l'ambiente in cui viviamo (non dovremmo mai sganciare la parola "ambiente" dalle parole "in cui viviamo") dovremmo cominciare a fare un lavoro interiore prima che esteriore. E, prima di compiere azioni, proteste e rinunce eclatanti sarebbe meglio lavorare ad un ripensamento del nostro stile di vita. Le proteste globali e i cortei, dandoci l'illusione di una partecipazione collettiva e di una rinnovata responsabilità, ci isolano dalla realtà delle cose e finiamo col tornare a vivere nella nostra egoistica solitudine.

In realtà molti di noi si illudono di partecipare alla risoluzione delle problematiche ambientali e lo fanno informandosi quotidianamente. Pensiamo che basti informarsi su tutto quello che avviene nel mondo e anche vicino casa nostra per salvare la natura. Siamo, a dire il vero, affetti da quella che i sociologi della comunicazione chiamano "disfunzione narcotizzante". Tu ti informi, leggi le notizie, posti una foto sui social, commenti un articolo e sei convinto di aver fatto qualcosa per gli altri e aver risolto i problemi. Ma stai solo "agendo" passivamente e il tuo contatto col mondo è solo un contatto mediato e niente più.

Senza alcun dubbio, dopo questi mesi di isolamento forzato, abbiamo bisogno di spazi dove respirare aria buona, esprimere i sentimenti, riconciliarci col mondo. E per fortuna l'uomo non arriva ovunque. Si prende tempo per pensare, utilizza un luogo come riserva e per riserva non intendiamo una riserva naturale. L'uomo "si riserva" di utilizzare anche quel luogo per soddisfare i suoi bisogni, per realizzare i suoi progetti.

A Bisceglie c'è un luogo in parte ancora immacolato che di bisogni ne può soddisfare davvero pochi, una strada che sembra toccata poco dall'uomo dove i ricordi diventano materia ancora inesplorata, dove l'infanzia è sempre lì ad aspettarti, paziente.
Chi come me è nato e cresciuto nel quartiere Cittadella a Bisceglie sa che per i ragazzi esisteva un percorso obbligato da fare in bicicletta: via Pantano.
D'estate, percorrendo via Fragata, ti lasciavi dietro le case e i palazzi e, arrivati al crocicchio di Carrara San Francesco, entravi in un mondo proibito. Quella strada era percorribile in bicicletta soltanto di giorno perché di sera non era illuminata e perché dicevano che fosse mal frequentata. Pare che di notte, sulla spiaggia del Pantano, sbarcassero i contrabbandieri e lì, sempre di notte, si praticasse la pesca di frodo. Si diceva anche che nella Cala del Pantano albergasse un mostro e che questo mostro venisse fuori di notte per spaventare chi ci passasse.

Tutte queste storie a noi bambini piacevano tanto e facevano venire la voglia di andarci e dopo, al ritorno dalla passeggiata, ti sentivi così coraggioso come se avessi percorso il bosco più insidioso, come se avessi praticato un rito. Andarci era il nostro rituale, un luogo al tempo stesso simbolico, vivo ed anche divino.
In realtà affinché un rituale funzioni bastano pochi gesti e pochi elementi semplici e in quel luogo li trovavi tutti.
A parte alcuni terreni coltivati, alcune casette di campagna e rimesse di contadini, i muretti a secco e le acque reflue, in quella zona non trovavi altri elementi antropici ma lame, valli, torrenti, insenature, compreso il tratto costiero che custodisce una delle ricchezze naturali più belle della nostra Puglia, le Grotte di Ripalta.

Da piccola pensavo esistesse solo questa costa di Levante e pensavo che dal mare si potesse scorgere soltanto l'alba. In realtà, trasferendomi da grande nel centro città, quell'alba non l'ho più vista e neanche quel raggio di sole che penetrava dalla finestra della mia stanza al mattino e che dava al risveglio qualcosa in più, la gioia di un giorno nuovo.

Un elemento essenziale delle nostre strade di campagna sono le edicole votive e via Pantano ne ha una molto bella, dedicata a San Francesco d'Assisi, che era il punto di partenza delle nostre passeggiate e che sembra tracciare il confine tra la città e questa splendida terra, tra i rumori ed il silenzio.
Coltivare i campi non è mai stata cosa semplice se pensiamo a tutte quelle incognite legate alla natura e alle calamità. E i contadini, già dall'antichità, per ingraziarsi gli dei e proteggere i campi, erigevano piccoli tempietti. Tempietti che in epoca cristiana vennero poi dedicati alla Madonna, a Gesù e ai Santi.
Queste edicole sono la testimonianza di una cultura contadina che ha ancora tanto da insegnarci. Testimoniano un mondo che rendeva grazie per il raccolto, si inginocchiava e aspettava con pazienza una grazia, pregava e lavorava. Un mondo quasi scomparso che ha lasciato piccole tracce, piccoli lumini accesi e volti sacri perché ricordassimo quanto è bello fermarsi.

Da via Pantano poi raggiungevi le grotte di Ripalta, uno spettacolo creato e modellato dalla natura dove facevamo anche il bagno. Restavamo un pomeriggio intero sulla spiaggia di ciottoli e poi dalla scogliera potevamo godere il mare e prendere il sole.
La passeggiata terminava lì dove vi era la parte più suggestiva, nella Cala del Pantano, in quel rifugio di barche di pescatori. Ed era lì che davi sfogo all'immaginazione, un luogo misterioso, dove avvertivi la sensazione di esserti allontanato troppo dalla città e dove sapevi che non potevi restare tanto perché qualcosa di strano poteva accadere.

Quel luogo magico è diventato terra di nessuno e i rifiuti la fanno da padrone. Non ci trovi case ma la testimonianza del nostro egoismo più sfrenato.
A dire il vero, oggi, tutta via Pantano è sommersa dai rifiuti ma sembra non importare a nessuno perché lì non c'è nulla di prestigioso da salvaguardare, non ci sono ville lussuose da preservare, soltanto un mare sconfinato, frutti ed erbe profumate, uccelli che hanno trovato casa e spazi immensi.

L'area è sottoposta a vincolo paesaggistico e, per ora, è vietato costruire nuove abitazioni. Del resto a cosa servirebbero nuove abitazioni se richieste non ce ne sono? A meno che ognuno di noi non voglia possedere tante case, non c'è motivo perché si continui a costruire e a colare il cemento. Ma qui, si sa, si scontrano e si scontreranno interessi politici ed economici che vanno bel al di là del comune sentire e dei fabbisogni di ogni individuo. E i "vincoli" non sono eterni e nuovi bisogni potrebbero spuntare come funghi.

Il Pantano è la nostra "Terra promessa" che ci è stata donata per sfuggire alle regole del tempo. Quel tempo che oggi ha delle regole davvero strane che fatichiamo a comprendere e ad accettare.
  • Stefania D'Addato
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