Come quando viene sera
Come quando viene sera
Cultura

Come quando viene sera

Racconti, riflessioni e ricordi su questo tempo

La sera, come tutte le sere, venne la sera.
Non c'è niente da fare: quella è una cosa che
non guarda in faccia a nessuno. Succede e basta.
Non importa che razza di giorno arriva a spegnere.
Magari era stato un giorno eccezionale, ma non
cambia nulla. Arriva e lo spegne. Amen.
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia


1
Sono giorni, ormai, che stiamo chiusi in casa. La città è deserta, non cammina nessuno. Le scuole sono chiuse. Tutte le attività sono sospese. Sono aperti solo i negozi di generi alimentari ma per entrarci devi fare la fila. Fare la spesa è forse l'unico modo per vedere il mondo.

Alle ore 18, ogni giorno, da quasi cinquanta giorni, arriva il bollettino della morte. Certo, il bollettino della Protezione Civile ci dice anche quanti sono i guariti da questo maledetto virus e quanti tamponi vengono effettuati, ma io guardo solo i morti. Li vedo percorrere la strada all'incontrario, uno per uno, quella strada che li ha portati in ospedale, tornare tra le braccia dei loro cari. Sì, perché hanno abbandonato le loro case troppo in fretta.

Ci sono coppie di anziani morti a distanza di poche ore gli uni dagli altri e questa forse è l'unica cosa romantica di questa immane tragedia. La morte si è insinuata tra noi e l'abbiamo accettata, le abbiamo detto "entra e siediti". Tanto prima o poi dovevi venire. E sei venuta per portarti via la parte più importante di questo nostro sciagurato Paese, i nostri nonni. E loro se ne sono andati avvolti in un lenzuolo bianco dopo essere stati sanificati come si sanifica una sala operatoria con il biocloro ed essere stati riposti in un sacco contenitivo. Chissà se qualcuno avrà pensato di sistemare loro le mani e mettere un rosario tra le dita come si fa prima di un funerale. Non lo sapremo mai. Tante cose non sapremo mai. Cosa hanno detto prima di morire, quale preghiera hanno recitato, quante lacrime hanno versato.

Quando mia nonna è morta io le ho tenuto la mano sino all'ultimo istante, volevo sentire il suo cuore pulsare e poi fermarsi. Si è spenta lentamente, molto lentamente e questa lentezza ha reso tutto così naturale, naturale il suo passaggio. Ma in quello che sta avvenendo oggi io non trovo niente di naturale. Non c'è una ragione, nessuna spiegazione che ci possa far accettare tanta sofferenza. Quale potrebbe essere la consolazione per chi non ha potuto piangere i propri cari defunti, partiti all'improvviso?

Franco Arminio lo scrive ogni giorno che questi morti stanno ad aspettare ancora un funerale. Hanno deciso di chiudere le chiese e di chiudere anche i cimiteri. Ma io assembramenti in un cimitero non ne ho mai visti. Eppure li hanno chiusi. E ogni giorno ci auguriamo che vengano riaperti perché sembra illogico che restino chiusi e i supermercati vendano anche cose di cui potremmo fare a meno.
La nostra è una società atea che non ama più i riti e li confonde con le conferenze e i concerti e le chiese molto spesso fungono da contenitori culturali tanto buoni per le feste.
In passato gli atei erano una stretta minoranza, erano per lo più colti e ricchi. Oggi sempre più persone pensano di poter fare a meno del conforto di Dio e l'ateismo non è più una cosa che ha a che vedere con il benessere.

Tante, troppe cose non saranno più indispensabili. Ci siamo riempiti di cose inutili e non sappiamo più dove metterle. Perché oggi l'unico lusso è poter camminare all'aria aperta e poter abbracciare tua madre.
Le immagini strazianti dei mezzi militari che portano via da Bergamo le salme dei morti per Covid-19 non le dimenticheremo mai. Eravamo abituati alle immagini che la letteratura ci ha dato, tante immagini, come quelle di Napoli e della peste del 1943. Immagini poetiche come quelle di Curzio Malaparte nella sua "Pelle". Non abbiamo mai creduto fino in fondo che queste storie, narrate nei romanzi, potessero essere vere, che carri della nettezza urbana raccogliessero corpi come rifiuti di vicolo in vicolo, di casa in casa. Non ci abbiamo creduto fino in fondo fino a quando non abbiamo visto l'immagine di Bergamo, perché sono cose di cui la maggior parte di noi non ha memoria. E, forse, perché la morte l'abbiamo rimossa, come si rimuove l'odore di un corpo che sta per decomporsi.

La morte non è più un tabù, si è insinuata tra noi ed è diventata ordinaria. Alle ore 18 di ogni giorno si fa la conta da Nord a Sud, di Regione in Regione, e così in tutte le parti del mondo. E loro se ne vanno senza un fiore, una preghiera e l'incenso. E Franco Arminio lo sa cosa è la morte, è un progetto di vita, un qualcosa che hai dentro e non ti lascia mai. Lo ha sempre detto in ginocchio, con la sua poesia che è preghiera laica che avvicina. E il 29 marzo di quest'anno ha chiesto che tutti noi ci riunissimo in un pensiero collettivo dedicato a tutte quelle persone che sono morte senza un funerale. Cinque minuti soltanto.

La morte dovrebbe continuare ad essere un fatto individuale, riguardare solo un uomo per volta. Perché ognuno di noi merita un pensiero diverso. Quando si muore tutti insieme la morte diventa una catena di montaggio come è avvenuto nelle guerre più atroci dove si pianta poi una croce che ignora le nostre singole esistenze. E si finisce per morire due volte.

La maggior parte delle vittime sono anziani che risiedono in case di riposo. E dal fronte stanno arrivando molte lettere e video messaggi. Un anziano di ottantacinque anni scrive a sua moglie, ai suoi figli e ai suoi nipoti ringraziandoli per tutto l'amore ricevuto durante la sua lunga vita. Ma non dice solo questo, lui scrive perché sta morendo, sa che con quel respiro corto non potrà durare a lungo. Scrive per dire che spesso ha finto di star bene, avrebbe voluto raccontare tutto ma non l'ha fatto. E che se avesse potuto in quel posto non ci sarebbe mai andato. Ma ora è troppo tardi, il virus ha pensato bene di soggiornare lì dentro perché ha trovato della carne tenera come il burro.
Trascorrere l'ultimo periodo di vita in una casa per anziani è come per un bambino nascere e crescere i primi anni senza una mamma. Credo che sia la stessa cosa. Stessa angoscia, stesso smarrimento.
Dovremmo riscrivere la nostra vita perché la vecchiaia resta un peso sulla coscienza e le cose dei genitori dovrebbero tornare a riguardare i figli, come si faceva un tempo quando agli uomini non si chiedeva di essere a tutti i costi forti, sani e produttivi e non esistevano i luoghi dell'abbandono, non vi era un limite al nostro essere bambini. Uno poteva avere ottant'anni ed essere trattato dolcemente e amorevolmente come un bambino.
Le case senza nonni sono oggi case senza memoria, senza fiabe e senza dolore.


2.
Io resto a casa. A casa si sta bene. Io sono abituata a restare a casa. L'ho sempre fatto e non mi è mai pesato. È facile restare a casa, però, quando sai che puoi uscire, quando puoi decidere di mettere due passi, di prendere la tua auto e andare in centro e lo puoi fare in qualsiasi momento della giornata. Ma quando resti a casa e sai che fuori non c'è nessuno tutto cambia. Senti il silenzio e cominci a contare i passi del vicino che esce solo per consegnare i rifiuti di sera.

La chiusura totale, imposta dal Governo, ha trasformato le nostre vite. C'è chi si sente utile agli altri e fa l'infermiere, il medico, l'operatore ecologico, il fruttivendolo, il macellaio, il contadino, il panettiere, il farmacista, il meccanico. A loro è concesso di lavorare e di uscire. Sembra che per loro la vita non sia cambiata. Poi ci sono quelli che hanno cominciato a sospendere il proprio lavoro, a sentirsi inutili. Perché ti vien detto che possono continuare a lavorare soltanto coloro che producono, vendono beni di prima necessità e coloro che si occupano della nostra salute. Ma ci sono tante cose necessarie che non vengono elencate.

Il nostro vocabolario si sta arricchendo giorno dopo giorno. Accade di solito in momenti straordinari come questi dove la vita ordinaria viene stravolta e per capirla ed esserci dentro devi per forza imparare quelle parole. Perché le cose non esistono prima che vengano nominate. E quando cominci a nominarle cominci anche ad accettarle.

Io resto a casa ma per i miei figli non è cosa semplice. Le scuole sono chiuse ma le lezioni continuano a distanza. Sembra che questa sia la scuola del futuro. E questo futuro comincia a spaventarci. E dire che io ho creduto tanto nella didattica on line, ma oggi vederli qui, davanti ad uno schermo mi provoca un senso di angoscia. Io da studente lo facevo, il livello di apprendimento può anche essere buono ma poi hai bisogno di un confronto e devi arrangiarti con una semplice mail. Non puoi pensare di seguire una lezione e poi fare altro.
La scuola ha i suoi codici di comportamento, le ore da rispettare, un posto da occupare. Ma se ti laurei in casa, nella tua stanza, l'unico posto che puoi occupare è la sedia della tua scrivania. Ho visto un ragazzo laurearsi in casa. Aveva un abito scuro molto elegante ma non aveva le scarpe. Solo pantofole. È il peggio che potessimo augurarci, vivere incollati alle nostre sedie. Sì, è vero, tutto può essere ricreato ma abbiamo perso la distanza che ci separar dai luoghi della nostra vita. Se manca quella distanza mancherà il fluire del tempo e resteremo immobili come inchiodati ad un eterno presente.

A casa si può fare tutto. Così dicono. La casa è diventato l'unico luogo sicuro e autosufficiente, un vero Tempio fatto anche per pregare e ti passa pure la voglia di uscire per fare la spesa perché devi indossare guanti e mascherina, disinfettarti continuamente le mani e non puoi avvicinarti a nessuno.

In questo tempo sospeso c'è chi prepara il pane in casa. E il pane lo fanno anche quelli che non hanno mai amato cucinare. Forse perché le nostre nonne ci raccontavano che in tempi di guerra e di miseria il pane si faceva in casa, era più buono, non induriva facilmente. Ed ora, per scongiurare la miseria, lo facciamo anche noi.

In casa si fa il pane e si prega perché le chiese sono chiuse. Ma la preghiera in casa non viene bene come il pane. Una messa trasmessa in televisione non è una buona cosa. Così come non è buona abitudine laurearsi davanti ad uno schermo.
La casa è il luogo dell'ordinario e ci sono cose che devono restare extraordinarie. Una divisione dei luoghi è importante. Non sarebbe nato neanche il teatro se avessimo saputo che un'opera l'avremmo potuta godere attraverso la televisione.
La solitudine non ci appartiene. Siamo abituati alle guerre, alle calamità naturali, ma non alla solitudine.

I ragazzi consumano libri e schermi, alternano silenzi a grandi risate, ma hanno una capacità di sopportazione superiore a quella degli adulti.
I miei figli trascorrevano poco tempo a casa. Forse soltanto all'ora di pranzo. Sempre di corsa tra la scuola, l'Università, il Conservatorio, la banda, le prove, i concerti, gli esami. A proposito di concerti, i musicisti si sentono in gabbia e le orchestre hanno cessato la loro attività. Forse il senso di quello che stiamo perdendo lo sanno proprio loro, i musicisti. Loro oggi si sentono incompleti, il loro suono è mozzato e interrotto da una pausa che sta durando proprio tanto.

La tecnologia ci sta aiutando, e quel distanziamento sociale oggi indispensabile qui, in rete, non serve. Le relazioni sono sempre più incorporee, le nostre menti sempre meno lineari, la tecnologia lavora anche sulle nostre percezioni sensoriali, la nostra vita sempre più trasparente, ipervisibile, panottica.
La dipendenza da connessione non ci spaventa più e abbiamo a disposizione un mondo senza doverci alzare dalle nostre comode poltrone.
Trascorriamo gran parte della nostra giornata in rete e la vita scorre on line senza soluzione di continuità, a volte senza accorgerci che cali il buio, che il giorno volga al termine.
Per lungo tempo ci hanno detto che virtuale non fosse reale ed oggi, invece, per fuggire la realtà devi evitare la rete. Sembra paradossale ma è così.

Ci siamo dentro totalmente e se stai fuori in giardino a curare i tuoi fiori capisci che non è quello il mondo reale, che la primavera è un inganno. La solitudine di massa è un mondo che non conoscevamo. Abituati alla velocità, ora dobbiamo fare i conti con l'attesa, un'attesa sconcertante. E se vai fuori in giardino corri il rischio di perderti troppo, hai bisogno di una bussola che ti indichi la strada. L'unica soluzione per non perdersi è avere paura, continuare ad avere paura, eliminare l'incognita dell'infinito perché se poi decidi di partire hai bisogno di conoscere la meta. Ed ora non la conosce nessuno.



3.
È davvero umiliante lottare per sopravvivere. Non c'è nulla di nobile in tutto questo. Siamo troppo concentrati sul nostro corpo e manteniamo le distanze per paura che questo morbo ci catturi. Guardiamo tutti con sospetto, non ci fidiamo di nessuno. Il virus ci mette l'uno contro l'altro, un essere intelligente che si nasconde e poi si manifesta dopo quindici giorni o poco più.

Si dice guerra quando perdi la libertà e noi l'abbiamo persa la nostra libertà. Ma è una guerra senza ideali, senza patria e senza bandiere. Siamo solo noi e il nostro corpo. E tutti maledettamente uguali, tutti vittime e untori regolati dalla pietosa e infima legge del più forte.
Il futuro è arrivato quando abbiamo cominciato, all'inizio dell'epidemia, ad indossare le mascherine e a fare la fila per entrare nei supermercati.

La mascherina è diventata il simbolo di questo tempo, di questo virus che si è insinuato tra noi e il mondo. È diventata la normalità e vedere qualcuno senza ti sembra anormale, trasgressivo, amorale.
Fino a poco tempo fa non avremmo mai pensato di nascondere il nostro sorriso, di camminare a bocca chiusa, mettere qualcosa che ci togliesse l'identità. Per molti indossare la mascherina è umiliante perché in questa lotta per la sopravvivenza non c'è nulla di eroico, difendere il proprio corpo resta soltanto una necessità vergognosa.

Lottare per un dio oggi non ci è concesso e la Pasqua, la festa più importante per noi cristiani, è stata rimandata a data da destinarsi.
Non era mai accaduta una cosa simile, neanche in periodo di guerra, che non venissero celebrate le messe e che tutti i riti e i rituali legati alla Settimana Santa venissero cancellati. I riti sono importanti, senza di essi perderemmo il nostro legame con il passato. I riti ci aiutano a scandire il tempo, a rompere la quotidianità, interrompono per poi ricostruire. I riti partono dal silenzio, dal dolore, dal lutto, dalle ferite per poi farti riacquistare la fiducia nella vita. La Settimana Santa è una rivisitazione del dolore che ci garantisce la sopravvivenza. Perché se dimentichi il dolore rischi di non apprezzare più la vita. Ma cosa accade se il rito non si ripete? La collettività si ferma e l'anima non si rigenera. Oggi Cristo è fermo e la Madonna non può raggiungerlo. Le donne vestite di nero non piangono e le marce non commuovono.

La quarantena sta creando una frattura incolmabile e ricongiungere i due punti sarà difficile come sarà difficile immaginarsi un mondo senza mascherina. Di notte faccio, da un po' di tempo lo stesso sogno: sono serena e cammino per strada ma all'improvviso mi fermo a pensare, nessuno porta la mascherina e ciò mi confonde, non so quale sia la normalità.

Il volto con la mascherina è il simbolo del nostro tempo. Con la mascherina stiamo interrompendo la nostra storia d'amore con gli altri, e si sa, quando ti allontani troppo dalla persona amata diventa difficile poi ricongiungerti. Si crea un buco, un vuoto che tenterai invano di riempire perché quello che ti è mancato non lo prendi più.
A diciotto anni mi sono assentata da scuola per un mese circa. Lo ricordo come il peggiore momento della mia adolescenza. Ero assente anche da me stessa, quello che ho fatto in quel lasso di tempo io non lo ricordo bene, ho solo immagini sfocate ed oggi mi resta ancora quel senso di colpa per quella cosa incompiuta.

C'è una cosa, però, che assomiglia tanto ad un vecchio rituale, io lo considero un rituale quello di stare sul balcone di casa. Oggi stare sul balcone ci sta salvando da questa grande solitudine. L'Italia si è affacciata al balcone e di lì canta, sogna e respira. È l'immagine più poetica di questa nostra povera Italia che ha voglia di cantare e canta canzoni d'amore. Le famiglie si danno appuntamento sul balcone intorno alle sei del pomeriggio perché a quell'ora c'è il coprifuoco e i negozi di alimentari sono chiusi.

Il balcone, soprattutto nell'immaginario di noi meridionali, rappresenta il luogo dell'osservazione. Lo è stato per molto tempo. Per i miei nonni era il luogo del riposo pomeridiano, ma anche delle faccende domestiche, quando nonno tornava a casa con il paniere pieno di frutti e ortaggi che nonna doveva poi pulire e sistemare per la cottura. Era il luogo dove nonna stendeva i panni, asciugava d'estate le mandorle fresche, curava le sue piante, sedeva su una piccola sedia per ricamare lenzuola e camicie da notte, parlava con la vicina e si scambiavano le cose, le faceva vedere quello che aveva comprato al mercato. E se doveva chiamarla non bussava alla sua porta ma la cercava sul balcone.

Ho smesso di uscire, di indossare abiti, di truccarmi. Non serve se resti in casa. Devi solo stare attenta che non ti succeda niente di grave, che so, un piccolo incidente, una colica, un raffreddore improvviso, perché i medici non ti ricevono nei loro ambulatori ed è sconsigliabile recarsi al pronto soccorso. La maggior parte dei contagi avviene proprio in ospedale.
Abbiamo sospeso anche l'abitudine, la nostra sana abitudine dei controlli per la prevenzione di alcune patologie. Il guaio è che a parte il virus, tutte le parti del nostro corpo continuano ad invecchiare, ignorano questa emergenza, le malattie proseguono il loro percorso infischiandosi del Covid-19.

Ci sono frasi a cui non potremmo mai rinunciare perché urgenti, vitali, inevitabili, semplici e chiare come la neve che si posa sulla terra. Come la frase "Ti amo". Anche questa frase ha perso, oggi, il suo senso. L'amore è una cosa semplice che si nutre però di cose vive, non gli puoi togliere l'aria altrimenti perisce. L'amore ha bisogno dell'odore dell'altro, della voce, del movimento delle labbra, delle mani che stringono ciò che conta. L'amore per l'altro perde senso, perché quando hai paura non puoi che amare te stesso. Tutto diventa rinviabile o al massimo trasferibile su di un supporto e trasmesso in digitale: un lavoro, un racconto, una festa, una messa. L'unica priorità sei tu e la tua paura.

Ho seguito una messa trasmessa in diretta social: niente di più inutile e infecondo. Ho cercato di concentrarmi sulle parole ma queste non corrispondevano ai gesti del prete, lui sapeva di essere ripreso e non era affatto concentrato sul suo messaggio di fede. Non tutti i messaggi possono essere mediati attraverso un supporto, ce ne sono alcuni che perdono la loro efficacia. L'unica mediazione che la Chiesa dovrebbe concedere è quella di Cristo e della Madonna.

La parte più ferita di questo nostro presente resta la Chiesa. La Chiesa si è dovuta adeguare all'utilità sociale. Alla Chiesa si chiede, oggi, di ragionare su ciò che è indispensabile, sulla necessità di una metafisica anche se la metafisica difficilmente convincerà una nonnina che ogni mattina sente il bisogno di ascoltare la messa perché per lei Gesù guarisce ogni male, per lei non esiste decreto che tenga, non c'è Sindaco che possa convincerla del contrario. A lei basta entrare in Chiesa, non deve capire niente.

Anche la poesia si è fermata. Si è fermata e sta contando il tempo. Non ha tanta voglia di raccontare perché forse ha troppo tempo per pensare. Si sa, quando c'è troppo tempo per pensare restiamo noi e le cose, le guardiamo, le spostiamo e poi andiamo a dormire. La poesia non vuole regole e oggi ci dicono cosa possiamo e non possiamo fare, e se sbagliamo non paghiamo noi soltanto.



4.
Per molti oggi il lavoro resta un'incognita: sono pochi quelli che non hanno smesso di lavorare. Molti settori lavorativi rischiano di fermarsi per molto tempo; per altri, invece, non si intravede un futuro. La sfiducia sta prendendo il sopravvento e c'è già chi sta pensando di chiudere la propria attività sempre per quel discorso che alcune cose non sono indispensabili e forse non lo saranno più.

Con questa fobia per gli assembramenti e la mancanza di spazi in città di sicuro molti valuteranno l'ipotesi di ripopolare le campagne, anche le più sperdute. I confort che le città ci hanno offerto a breve non serviranno più. Magari ognuno con il proprio orto. Di certo ne godrebbero i bambini e gli anziani. Verrebbe meno anche quel senso di solitudine. Quando hai davanti a te un albero non sei mai solo. Ma non parlo di residenze estive, di case dove trascorri le vacanze fatte solo per un po' di relax e ricevere gli amici. Quando parlo di ripopolare le campagne intendo compiere un passo indietro, una sorta di ruralizzazione del ventunesimo secolo. Questa cosa di tornare indietro si sa, fa parte di tutti quei racconti dove il futuro ha già dispiegato tutte le sue affascinanti opportunità e avendole mostrate tutte e non sapendo cos'altro proporre si rivolge al passato per ricominciare tutto daccapo. Del resto non è ipotizzabile un progresso che proceda sempre in avanti, all'infinito.

Quando parliamo di futuro, chissà perché, lo immaginiamo sempre come un luogo dove si sta peggio, un luogo dove si vive trascurando i sentimenti e massimizzando il più possibile le forze. Un luogo dove la tecnologia prende il sopravvento sull'uomo, anzi dove la tecnologia e l'uomo sono una cosa soltanto, vivono in simbiosi, un luogo triste dove se ti metti a pensare c'è qualcosa che ti controlla il pensiero e lo registra.
Il futuro è arrivato, è arrivato nel momento in cui non ci arrabbiamo più se qualcuno ci controlla e ci dice cosa possiamo e non possiamo fare, è arrivato nel momento in cui il rispetto delle regole per il contenimento del virus va al di là del senso dell'etica e della vita. E tutti si scoprono delatori, difensori della morale, integralisti della salute.

Il controllo non ci spaventa più, quei dati che mettevamo in rete fino a poco tempo fa e che cercavamo di proteggere ora appartengono a tutti. Appartengono allo Stato, garante della nostra salute e della nostra felicità.
Stiamo rinunciando alla nostra libertà in nome di un bene superiore che è la salute.

Un tempo la disciplina operava soltanto in sistemi chiusi come ospedali, carceri, fabbriche, caserme. Oggi si è passati ad un sistema disciplinare che opera all'aria aperta in maniera illimitata. Dove non servono muri o barriere per incarcerare ma basta una semplice connessione internet e un sistema Gps di posizionamento globale. Così verrai beccato e fotografato se vai sul terrazzo di casa a prendere una boccata d'aria, se esci senza mascherina, se passeggi sul lungomare, se vai a fare la spesa con tuo marito, se esci dopo le ore 18.

I sistemi di sorveglianza, attivi già da tempo, sono oggi comunemente accettati e sono nati principalmente per studiare, monitorare e prevedere rischi futuri.
I sociologi quando parlano di rischi non fanno riferimento a danni che si sono già verificati. Ciò che conta è il "non ancor evento", l'elemento potenziale del rischio.
Gli scienziati hanno ipotizzato tanti rischi per il nostro pianeta tralasciandone uno, uno soltanto, quello di una pandemia.



5.
Non eravamo pronti e di sicuro non lo saremo mai perché non siamo in grado di difenderci da chi vuole tenerci lontani a tutti i costi. È innaturale e antiumano dover restare sempre a casa e uscire al mattino soltanto per comprare da mangiare.
Attendiamo la riapertura del cimitero e andarci sarà come andare ad una festa. Io voglio andarci per salutare una donna, Vittoria, morta all'età di ottanta anni senza un funerale.

Capiterà anche a voi di compiere dei gesti normali, consueti e di dare per scontato di averli compiuti sempre. Ignoriamo, a volte, che dietro ogni nostro gesto, dietro ogni cosa che sappiamo fare ci sia sempre un inizio o un iniziatore. Per me la casa di Vittoria rappresenta l'inizio di alcune cose perché da piccola, se aprivo la porta di casa c'era un piccolo pianerottolo e poi casa sua. Quella casa non la vedo da trent'anni ed è bello che nella mia mente sia rimasta intatta così come i ricordi. Il suo pavimento lucido, la cucina piena di pentole, la stanza del nonno dove mi nascondevo sotto il letto per guardare il vaso da notte, la stufa a cherosene nel corridoio con i panni stesi, il pavone imbalsamato nel salotto, le bambole di pezza, e lei sempre pronta ad accoglierti. Poi cresci e cambi casa e i vicini non sono più gli stessi, esci e si rompe quell'idillio durato tanti anni.

Poter, da grande, continuare a guardare il mondo con gli occhi di bambino, sarebbe una cosa bella ma devi per forza venire fuori, uscire dall'incanto perfetto, trasformarti in un individuo, adattarti alle regole estranee alla vita in quanto tale, realizzare i sogni degli altri, dipendere dall'esterno, rinunciare all'idea che la vita sia un fatto compiuto e cominciare a riempirla anche di cose inutili, come quelle cose che trovi nei grandi supermercati e che oggi ci vengono concesse.

Restare a casa è come tornare nel grembo materno, un ritorno verso sé stessi ed il proprio corpo. La casa è per noi "ambiente" come la mamma lo è per i propri figli.
In questo ambiente ci apparteniamo, siamo fatti della stessa materia e se ci restiamo troppo a lungo rischiamo di non saper stare più con gli altri, di perdere la voglia di uscire, di non voler più toglierci di dosso questo comodo pigiama e queste comode pantofole.
Torneremo a riabbracciarci perché dopo una lunga pausa di solitudine e di sofferenza solo un abbraccio può colmare quel vuoto. Ne hai bisogno. Come ne avevo io diciannove anni fa.

Le immagini che scorrono ogni giorno attraverso la tv e il web, che ritraggono medici e infermieri al lavoro e pazienti in stato di sofferenza, mi sono molto familiari. In passato ho trascorso tanto, troppo tempo in un letto di ospedale ma quella mia sofferenza aveva un senso, dovevo salvare mio figlio che aveva tanta voglia di venire al mondo e penso che quella fretta di crescere ce l'abbia ancora.
Dovevo restare immobile e l'ho fatto per tre lunghi mesi, senza poter scendere dal letto, senza potermi girare sul fianco, senza poter avere delle emozioni perché bastava una risata a scatenare l'inferno. L'inferno era per me colorato di rosso e di rosso coloravo il mio letto, le mie camicie da notte bianche così che il contrasto fosse ancora più evidente. Per un figlio saresti capace di sconfiggere un intero esercito di mongoli. Ed io spesso non dormivo perché avevo paura che qualcosa accadesse durante il sonno. Ero vigile, sempre, e ogni giorno controllavo i miei valori sanguigni per sapere quanto avevo perso e quanto dovevo recuperare. Le mie braccia erano inguardabili, e sognavo di liberarmi da quel "filo" come diceva Francesco che aveva due anni. Lui veniva a trovarmi una volta a settimana e diceva: "Mamma ha il filo. Perché ha il filo?" E mentre lo diceva non mi guardava, spaventato, bucherellava il muro dell'ospedale.

Diciannove anni fa non avevo un cellulare. Credo che un cellulare mi avrebbe aiutata tanto, avrei potuto scrivere alla mia famiglia e ai miei amici. Essere in contatto costante con loro. Non avevo la forza di portare il cucchiaio alla bocca da sola e spesso rinunciavo a mangiare. E se devi stare sempre a letto rinunci pure ai tuoi bisogni giornalieri. Questo è essere ammalati ed essere fermi in un letto di ospedale.
Guardavo le mie gambe ma erano talmente sottili da sembrare denutrita. Una piccola pancia che non sembrava la pancia di una donna che aspettava un figlio e la confrontavo sempre con quella che avevo durante la prima gravidanza.
In ospedale avevo delle foto, le ultime che scattai prima di ricoverarmi, prima del mio lockdown che sarebbe durato novanta giorni. La situazione sembrava essere tutto sommato sotto controllo fino a quando, una notte, il mio corpo cedette e le contrazioni uterine aumentarono: vedevo la vita che si stava staccando da me e i medici che erano in preda al panico. Ricordo mia madre che di notte arrivò piangendo e singhiozzando ma io ero immobile e serena, senza più linfa avevo perso le forze. Quando sei al limite ti senti coccolata da una strana carezza che non si può descrivere.

In clinica non potevano più tenermi e mi trasferirono in ambulanza al Policlinico di Bari, perché si sapeva che il bambino sarebbe nato con enorme anticipo e avrebbe avuto bisogno di una incubatrice. Di quella notte ricordo solo i soffitti, cavi elettrici di immensi padiglioni. Mi portarono in una sala travaglio enorme piena di donne con situazioni estreme, delle più disparate. Lì potevi dire addio ai dolci sguardi premurosi delle infermiere a cui ero stata abituata nei mesi precedenti. Lì non sapevano nulla di me, non avevano neanche la mia cartella clinica, non credevano alle mie parole. Restai tre giorni lì dentro senza avere contatti con la mia famiglia e mio marito. E quello che avvenne in quei tre giorni non l'ho mai raccontato perché quando ricevi tanto dolore poi per tutta la vita pensi che quel dolore tu lo meritavi e un forte senso di colpa ti accompagna per sempre.

Mi dissero che fossi solo una povera illusa e che avrei dovuto espellere anziché partorire, che nella pancia non c'era niente, che a ventotto settimane un feto non può durare. Mi dissero: "Smettila, stai zitta, tu parli troppo, adesso facciamo presto perché non ti sopportiamo più".
Per le condizioni fisiche in cui ero non avrei dovuto fare un parto naturale, ma lo feci ugualmente. Dopo tre mesi di immobilità, dopo tre giorni in quella sala travaglio dove mi avevano iniettato una medicina per trattenere le contrazioni che mi faceva esplodere il cuore, con gli occhi sbarrati per settantadue ore, allo stremo delle forze mio figlio nacque. Nacque all'alba del 30 maggio. L'ostetrica, una donna che di sicuro avrà subito tanto male nella sua vita, mi disse che il nome che avevo scelto per mio figlio era orrendo. Vito era Il nome di mio padre. Poi se ne andò dicendo: "Finalmente è finita". Io caddi in un coma vigile per molte ore. Mi tennero in sala travaglio, ancora affollatissima, su una barella strettissima per sei ore perché posti in reparto non ce n'erano. Mio figlio non lo vidi. Era nato a ventotto settimane ed era il bambino più bello del mondo.
Al mio risveglio le gambe , come in preda a delle convulsioni, si muovevano continuamente e non riuscivo, pur volendo, a fermarle.

La vita è fatta di cose fortuite, di cose che capitano e basta. Non puoi farci nulla. Il caso ha voluto che io, a distanza di quattro anni, tornassi in quel luogo di dolore ma il buon Dio mi ha fatto incontrare delle persone meravigliose. Come quei medici e quegli infermieri che oggi donano la loro vita negli ospedali.
Ho impiegato mesi per riprendere le forze. Dopo il parto andai a vedere il bambino. Stava benissimo, era un incanto, e nonostante la sua prematurità respirava da solo. Per i pediatri si trattava di un miracolo.
È rimasto lì due mesi prima che potessi portarmelo a casa, potevo vederlo solo un'ora al giorno. Indossavo cuffia, guanti, scarpe, camice sterili per entrare in terapia intensiva. Quando i bambini sono così piccoli basta poco che si infettino, sono fragili, talmente fragili che hai paura anche a guardarli. Non gli ho mai scattato una foto in quei due mesi. Sarebbe stato come violare l'intimità più profonda.
Di sera tornavo a casa senza mio figlio.

Ecco, se qualcuno oggi vuole sapere cosa significhi stare in terapia intensiva significa non poter avere contatti con le persone che ami. E chi oggi sta perdendo i genitori per questo maledetto virus si sente come mi sentivo io diciannove anni fa. Mi avevano strappato mio figlio, di notte non dormivo e mi chiedevo quale posizione assumesse nella culla e quanti grammi avesse preso.
È innaturale, è la cosa più crudele non poter stringere tra le tue braccia tuo figlio appena nato; è innaturale e crudele non poter abbracciare i tuoi genitori mentre stanno morendo.
Questo bambino così piccolo mi ha fatto innamorare della vita in una maniera folle, sconsiderata, irrefrenabile. Avevo ventisette anni ed ero nata un'altra volta.

Sono dovuti passare anni affinché io potessi rielaborare tutto quanto. Non è semplice. Lui cresceva splendidamente, i miei due figli crescevano splendidamente. Al mio piccolino non ho mai raccontato nulla, perché dovrei. Essere madre comporta dei sacrifici e questo è stato il mio più bel sacrificio.
Gli anni passavano ma io portavo dentro la rabbia di chi ha perso qualcosa. Il distacco da casa, da mio marito e da mio figlio in quei mesi mi era pesato tanto, più del dolore fisico. Sentivo di non meritare quella solitudine.
Poi un giorno arrivò la musica come un dono e come una consolazione, come l'abbraccio che mi era mancato per tanto tempo. Lo sento suonare ogni giorno, da otto anni, il flauto. E questo suono, possente e dolce al tempo stesso, è il dono più grande che la vita potesse darmi.
Un abbraccio non è altro che una cosa che ti ripaga il sacrificio che hai compiuto.
E oggi di abbracci ne abbiamo tanto bisogno perché ci siamo riempiti di solitudine e abbiamo bisogno di tornare a sentire con le mani, non solo con le parole.



6.
Dicono che nulla sarà più come prima. Cambieranno le nostre priorità, il nostro approccio alla realtà. Nasceranno, molto probabilmente, un nuovo modo di lavorare, di amare e di respirare. La nostalgia sarà bandita perché potrebbe nuocere gravemente alla salute. E la salute verrà prima di qualsiasi altra cosa. Neanche agli errori del passato guarderemo. Perché il passato è troppo diverso dal presente.

Le chiese sono chiuse e i matrimoni sono stati quasi tutti rimandati al prossimo anno. La nostra Diocesi ha disposto che i matrimoni religiosi si possano celebrare con la sola presenza del sacerdote, degli sposi e dei testimoni. Ma per molti questo non sarebbe un matrimonio. I miei nonni materni si sono sposati in questo modo e hanno vissuto insieme sessantacinque anni. E anche se nonna è morta due anni fa, nonno continua a fare le cose che faceva con lei, e so che quando entra in cucina, ogni giorno, la vede lì, davanti al fracassé con il grembiule annodato in vita, a riscaldare la minestra. Ma non vuole che gliene parli. L'ho fatto una paio di mesi fa e all'improvviso ha smesso di parlare e ha chiuso gli occhi.

A mia nonna non sono mai piaciute le feste, lei pensava che le feste non fossero importanti e che tutto il denaro speso così potesse servire per fare qualcos'altro. Ma quelli erano altri tempi, vi erano altre priorità e se ti mancava qualcosa sapevi che poi avevi sempre il tempo di recuperarla, il meglio doveva sempre venire e il peggio te lo portavi dietro.
Cosa è accaduto, oggi, al tempo? Il tempo, questo nostro tempo oggi ha smesso di raccontarci delle storie e le storie, si sa, governano il tempo, gli danno forma e tutto ciò che non possiede una forma non è più afferrabile.

I testimoni di questa nostra libertà mancata restano gli artisti che oggi, come accade ai sacerdoti, non sanno quando potranno riprendere la loro attività sempre per quel discorso che non tutto è indispensabile.
Gli artisti scelgono oggi di non fermarsi e di continuare a dialogare con gli utenti attraverso dispositivi tecnologici e di non percepire nulla in cambio. La loro esibizione è un atto gratuito, è un'esibizione che sembra voler riportare l'arte al suo significato originario, iniziale, primitivo, alla pratica del dono.

Non puoi chiedere ad un artista di stare fermo, non lo farà mai. E se non può camminare troverà il modo di raggiungerti. Lo fa perché ama confrontarsi, agire sulle contraddizioni, fare suo il disagio degli altri, nutrirsi e nutrire l'immaginario. L'artista mostra di saperlo fare anche davanti a una tastiera, contaminando i linguaggi, creandone di nuovi, rinnovando sempre la sua sensibilità verso le cose e la vita.
Ma questo non potrà durare a lungo, mancano i corpi e le relazioni, uscire di casa e scegliersi un luogo che abbia spazi fisici e non mentali, godere uno spettacolo alla volta, ascoltare la musica e portarle rispetto, chiudere la porta al quotidiano, separare il teatro dalla camera da letto, rimettersi in macchina e percorrere quella strada che ti porterà a casa mentre tu rifletti sulla bellezza di un palcoscenico.
I luoghi sono importanti, non possono essere elusi. L'arte senza il suo luogo naturale è come una narrazione senza una casa, una strada, un giardino. Sia che essi siano luoghi chiusi che spazi aperti. E se mancano tu leggerai una storia che quando la mente vorrà ricordarla non troverà un appiglio, non saprà da che parte cominciare.

A proposito di luoghi: l'Italia non sembra più il Paese di un tempo. Il mondo intero non sembra più offrirci nuove opportunità. Isole felici ora non ce ne sono, viaggi della speranza neanche, nessuno più sogna di andare a lavorare al Nord e i settentrionali sanno che qui da noi si sta meglio.
La mappa del virus che viene pubblicata giornalmente mostra un'Italia divisa. Il Nord Italia è più colpito dal virus, soprattutto Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. Nelle regioni del Centro-Sud la situazione è molto più gestibile, i contagi sono minori e di conseguenza anche il numero dei decessi.

I reportages mostrano una sanità al Nord in gravissime difficoltà per la gestione della malattia e dei tanti pazienti ricoverati. Anche gestire i defunti diventa difficile.
Si indaga su quelle che potrebbero essere le cause che abbiano scatenato un contagio maggiore al Nord. Alcuni ipotizzano che il virus trovi terreno fertile lì dove vi sia una maggiore presenza di polveri sottili nell'aria; altri sostengono che, nonostante fosse stato dichiarato lo stato di emergenza, alcune fabbriche al nord abbiano continuato a lavorare. Altri ancora colpevolizzano il nord per la mala gestione delle residenze per anziani dove vi è il maggior numero di decessi. C'è chi invece pensa che il sole ed il clima più mite del Sud sconfigga il virus più di qualsiasi altro potente farmaco.

Le cure sono solo in fase di sperimentazione, del resto due mesi sono davvero pochi e la Cina non ha fornito all'Europa notizie certe. La Cina non è di certo l'interlocutore ideale in un momento come questo e ognuno si arrangia come può. Gli esperti virologi chiamati in causa a sostenere una tesi hanno poi dato diverse interpretazioni.
La realtà è che la capacità di contagio di questo virus è molto alta, la letalità anche. E noi ci sentiamo ogni giorno sempre più piccoli, inermi e impotenti.

Fino a poco tempo fa avevamo tutti quanti dei punti fermi, per esempio noi meridionali sapevamo che la sanità del Nord Italia fosse migliore della nostra, meglio gestita, più efficiente, più all'avanguardia, con più risorse per la ricerca. Come del resto anche le Università.
Ma il virus e le situazioni estreme fanno crollare i miti, stravolgono e capovolgono le prospettive sulle cose, ti costringono a rivedere tutto quello in cui hai creduto in tutta la tua vita.
Forse l'idea di uguaglianza resterà solo una utopia ed oggi è molto più facile credere nelle distopie che nelle utopie. Ma sta di fatto che il virus abbia dato una forte scossa a chi, fino a ieri, ha creduto nella superiorità di certi modi di essere e di pensare.

Vittorio Feltri, uomo del Nord, non perde occasione per colpire con le sue parole il Sud e noi meridionali tacciati di inferiorità.
Feltri mostra un volto stanco, sofferente, l'appiattimento di cui parlavo prima ha disarmato anche lui. Ma com'è possibile sentirsi lesi dalle sue parole? Il mondo è pieno di luoghi comuni, di cose pensate con grande superficialità e dettate dal pregiudizio. È solo un luogo comune pensare che gli italiani mangino solo pasta; è luogo comune pensare che i meridionali e i napoletani in modo particolare siano esseri inferiori.
Benedetto Croce, in un suo splendido lavoro intitolato "Paradiso abitato da diavoli" (lavoro che prende spunto dalla conferenza letta alla Società napoletana di Storia Patria nel 1923), dirà che i "plebei di cuore e di mente" sono sempre esistiti, sin dai tempi degli angioini, sempre portati ad insultare i popoli. Il popolo più offeso è sempre stato quello napoletano. Lazzari, così vennero chiamati i proletari di Napoli. Erano considerati rozzi, cenciosi, oziosi, con nessuna voglia di lavorare. In realtà i napoletani lavoravano, solo che lavoravano in un modo diverso ed uno sguardo attento come quello di Goethe riuscì a notarlo e ad abbandonare tutti i pregiudizi diffusi nei paesi del nord. Non trovò a Napoli i cosiddetti oziosi, "trovò gente che aspettava il lavoro e si riposava dopo averlo compiuto". Allora, se ci dicono che siamo fannulloni, che suoniamo il mandolino (magari sapessimo tutti quanti suonarlo) e stiamo stesi a prendere il sole, noi dobbiamo lasciare che ce lo dicano perché valga da pungolo, da stimolo, e mantenga viva in noi la coscienza di ciò che siamo. Croce dirà che la riprovazione però tornerà, tornerà ogni qual volta ci ritroviamo ad osservare e giudicare la politica, l'unità nazionale, il ritmo generale della vita.

E ora ci siamo tutti quanti fermati ad osservare il ritmo generale della vita: la natura respira anche senza di noi e pure meglio, e capiamo che fermarsi è servito a qualcosa.
Forse dovremmo fermarci un po' più spesso. Rallentare il passo e godere del silenzio, abitarlo e custodirlo, e poi riprendere a camminare. E poi fermarci ancora, abituarci a guardare avanti e indietro. Così come fanno i gabbiani che muovono la testa in avanti e indietro per essere più stabili, cercare cibo e quindi sopravvivere meglio.

Ci dicono che la quarantena stia volgendo al termine e che presto usciremo di casa e potremo incontrare i nostri familiari e i nostri amici. C'è chi potrà tornare a lavorare.
In realtà ho tante cose da fare anch'io. Ho una lunga lista di cose da comprare, di persone che vorrei incontrare. Ma ho ancora tanta paura. Mi capita ogni volta che una cosa finisce. Perdo l'orientamento e comincio a barcollare.

Lunedì 4 maggio uscirò di casa. Prima di uscire di casa, però, starò attenta che non entri nessuno. Dentro ci sono molte cose importanti e non voglio perderle. Ci sono i sorrisi dei miei figli, le lunghe nottate mie e di mio marito a raccontarci le storie, i libri da sistemare, le dispense da riordinare, i pranzi interminabili dove, tra una pietanza ed un'altra, ci siamo ripromessi di non abbandonare mai questa casa, il nostro primo mondo, la nostra culla che ci ha tenuti stretti come quando viene sera e ti prepari per andare a dormire.
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