Albert Camus
Albert Camus
Le ragnatele di Ersilia

Una porta che si apre

Rubrica di cultura e società

Ci sono libri che leggeremmo più volte per scoprire sempre qualcosa di nuovo, una parola trascurata a cui abbiamo prestato poca attenzione perché presi da qualcos'altro o magari perché ignari di quel sentimento che poi è germogliato all'improvviso.
Un libro è una montagna di parole e la montagna è fatta da tanti strati sotto cui si celano tante verità, una per ognuno di noi.
Ne puoi trovare tante, basta scavare a fondo e quelle verità, lette in momenti diversi della vita, cambieranno e più diventi maturo più quel libro ti piacerà.

Tutto questo accade molto spesso con i classici che rileggi e sembrano dei monumenti e vuoi che nessuno li tocchi perché sono belli così, ogni cosa è al suo posto. Un'architettura perfetta, compiuta, fatta per durare a lungo.
Il tempo, si sa, cambia le cose ma se leggi "La peste" di Albert Camus capisci che le paure degli uomini sono sempre le stesse.

Descritta come il peggiore del flagelli, la peste miete tantissime vittime: corpi straziati da dolori lancinanti, bubboni che esplodono, febbri inarrestabili, famiglie intere decimate. Ma un lettore attento avverte che non è la morte il vero dramma. Non è la morte che spaventa e non è con la morte che la prosa tocca momenti di puro lirismo.
Ciò che spaventano sono le porte che si chiudono, l'assenza di ogni tipo di comunicazione, la perdita della libertà, gli amori spezzati, i sogni infranti, i treni fermi, lettere che non verranno mai recapitate perché considerate infette, sentimenti individuali cancellati.

Siamo negli anni quaranta del Novecento e le relazioni a distanza che oggi coltiviamo erano inimmaginabili ma pare che le moderne tecnologie, oggi, non abbiano cancellato il senso di solitudine, lo hanno soltanto trasformato in un qualcosa di diverso.
Oggi le relazioni sono sempre più incorporee e strabordano di parole, parole molto spesso inutili e dannose, parole che scavano solchi profondi, confondono le idee, parole che fluttuano nel mare immenso della Rete che, come frecce impazzite, partono a raffica e seguono varie direzioni. Parole nuove che ci assillano quotidianamente e rimbalzano di bocca in bocca il cui significato, mutuato dai media, resta un mistero per molti. Parole che dividono e ci allontanano sempre più.

Ci si accontenta di un linguaggio da "piazza", di una inquietudine vissuta in modo convenzionale perché convenzionali le parole che usiamo, come quelle dei giornali che ogni giorno ci comunicano il bollettino di guerra.
Che sia la Rete, oggi, ad aver smerciato il dolore o sia stata la pandemia, non lo sapremo mai. Resta il fatto che la paura di un nuovo confinamento e di un esilio forzato sta tornando e quando un dolore ritorna fa più male. Perché a quel dolore devi sommarne anche il ricordo.

La prima volta sei inconsapevole e protetto dalla tua inconsapevolezza; la seconda volta c'è la malattia e con essa la paura che resti con te per sempre in un fantastico "eterno ritorno".
Leggere un libro non cambia lo stato delle cose. Non risolve i tuoi problemi, non ti dice ciò che devi e non devi fare. E non ci dirà come questo virus morirà.

Un libro è una boccata d'ossigeno quando l'ossigeno scarseggia e la bocca è serrata. Un libro è un'impronta che qualcuno ha lasciato perché tu poi possa proseguire le sue orme. È un percorso accennato, un discorso aperto, una porta che si apre, un fiume di speranza. Una distrazione salutare che lascia spazio all'impossibile.
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